Secondo Luca Pesenti, esperto in materia, le misure messe in campo dal governo sono già importanti, ma adesso in Italia serve un vero cambio di passo da parte di tutto il sistema.
“Sul welfare aziendale in Italia siamo progrediti parecchio negli ultimi anni ma ora serve una vera svolta culturale da parte di tutto il sistema produttivo e sociale”. Ne è convinto Luca Pesenti, docente di “Sistemi di welfare comparati” alla facoltà di Scienze politiche e sociali all’Università Cattolica, che ha da poco scritto un libro – intitolato “Il welfare in azienda. Imprese smart e benessere dei lavoratori” (ed. Vita e Pensiero) – che si propone come manuale teorico e pratico per orientarsi nel settore in Italia.
Professor Pesenti, che cosa pensa del welfare aziendale in Italia e del suo sviluppo in relazione ad altri Paesi europei e alle attuali dinamiche di spesa sanitaria e di invecchiamento della popolazione?
Abbiamo vissuto una fase di forte sviluppo negli ultimissimi anni, anche perché partivamo da molto indietro visto che l’Italia, storicamente, non è un sistema all’inglese dove tutta la contrattazione è aziendale e l’employee benefit è molto sviluppato. Da noi, lo sviluppo della contrattazione di secondo livello e del welfare aziendale stanno andando di pari passo solo negli ultimi anni, anche perché nel passato c’è chi si è opposto nella convinzione che il tema del welfare dovesse essere esclusivamente di competenza statale, o al più demandato alla contrattazione nazionale. Poi, dopo 30 anni che non veniva modificata, la normativa fiscale è cambiata nel 2015 e nel 2016 e adesso c’è una significativa convenienza a ricorrere al welfare aziendale: da una parte le aziende sono più competitive, dall’altra lo Stato incentiva la diffusione di beni e servizi che possono parzialmente compensare l’arretramento del welfare pubblico. Chiaramente, la sanità è un epicentro critico all’interno di questa dinamica.
Che cosa si può fare per ampliare ulteriormente lo sviluppo del welfare aziendale?
Fino ad oggi il welfare aziendale si è diffuso nelle grandi aziende e parzialmente nelle medie, lasciando fuori le piccole che però rappresentano il grosso dell’industria e dell’occupazione in Italia. In questo senso, le ultime due leggi di Stabilità hanno rappresentato passaggi importanti, ormai ci sono pochi vincoli regolamentari; piuttosto serve una svolta di tipo culturale da parte di tutto il sistema produttivo e sociale sia da parte dei dipendenti che devono iniziare ad entrare nell’ottica di avere dei benefit al posto di una parte della retribuzione (quella variabile) che da parte delle aziende che non sempre conoscono bene le norme e hanno difficoltà ad abbracciarle all’interno delle logiche complessive della gestione delle risorse umane. Insomma, siamo davanti a una sfida che presenta opportunità e rischi.
Che ruolo devono giocare secondo lei in questo contesto i fondi sanitari integrativi come Assidai?
Saranno sicuramente un collegamento con la contrattazione di primo livello. Il tema più forte a mio parere è legato all’andamento della spesa out of pocket in Italia visto che siamo al 22% della spesa sanitaria totale, superiore alla media dell’Unione Europea a 28 Paesi. Una spesa molto alta per un sistema universalista come il nostro, con il 7% dei bisogni medici che non trovano soddisfazioni per cause economiche (un valore doppio rispetto alle medie UE). Di questo passo il problema si pone e si porrà sempre di più con difficoltà crescenti: non c’è dubbio che i fondi sanitari un ruolo forzatamente lo dovranno avere.
Luca Pesenti Ricercatore di Sociologia generale nella Facoltà di Scienze Politiche e sociali dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, dove insegna Sistemi di welfare comparati e Modelli, strumenti e regole del welfare. Dottore di ricerca in Sociologia economica nella Facoltà di Economia dell’Università di Brescia, si occupa di temi legati al welfare contrattuale. Dal giugno 2013 è Direttore delle ricerche e componente del comitato scientifico dell’Osservatorio Donazione Farmaci presso la Fondazione Banco Farmaceutico.