Fringe benefit, le regole per il nuovo limite a 3mila euro per incentivare il potere d’acquisto e ridurre il cuneo fiscale

Il Decreto Lavoro, approvato in estate e convertito successivamente in Legge, ha introdotto una novità importante: per incentivare il potere d’acquisto e ridurre il cuneo fiscale, infatti, ha aumentato solo per il 2023 il limite di esenzione per i fringe benefit da 258,23 a 3.000 euro.

Una variazione rilevante, che tuttavia – è bene precisare – vale soltanto per i lavoratori dipendenti che hanno figli a carico. Per quanto si tratti di una misura una tantum, e comunque ristretta soltanto a una parte della popolazione lavorativa, va comunque sottolineato che il provvedimento contribuisce alla crescita e al consolidamento del welfare aziendale, ormai un elemento sempre più centrale, in Italia e nelle aziende tricolori, per vivere e rafforzare il rapporto tra datore di lavoro e dipendente su nuove basi, imperniate sulla condivisione, sulla collaborazione e sul cosiddetto work life balance, ovvero l’equilibrio tra vita lavorativa e privata.

Il nuovo quadro normativo: chi e come può usufruirne

Che cosa stabilisce il nuovo quadro normativo?

La Legge 85/2023 conferma, da un lato, per l’anno in corso la tassazione a doppio binario per i benefit; dall’altro, aumenta le risorse finanziarie messe a disposizione per consentire l’agevolazione anche sotto l’aspetto contributivo.

In altre parole, per i lavoratori con figli a carico la soglia di esenzione fiscale e contributiva dei benefit è aumentata a 3mila euro, mentre per i restanti rimane in vigore il limite di 258,23 euro. Invariato invece il principio secondo cui, qualora il valore dei beni o dei servizi forniti risulti complessivamente superiore al limite di 3mila euro o di 258,23 euro, l’intero importo dovrà essere assoggettato a imposte e contributi.

Chi potrà usufruire del nuovo limite dei 3mila euro?

I lavoratori dipendenti con figli, compresi quelli riconosciuti nati fuori del matrimonio, con figli adottivi o affidati, che si trovano nelle condizioni previste dall’articolo 12 del Tuir. Secondo tale disposizione, sono fiscalmente a carico i figli che abbiano un reddito non superiore a 4mila euro, ovvero a 2.840,51 euro nel caso abbiano età superiore a 24 anni. La norma di favore, per quanto rivolta ai lavoratori con “figli”, deve ritenersi applicabile anche a quelli con un solo figlio a carico.

Con un caveat: qualora l’unico figlio a carico dovesse perdere tale condizione, in quanto in possesso di un reddito superiore a quello sopra indicato, si avrebbero due conseguenze: l’inapplicabilità della soglia di esenzione potenziata a 3mila euro, con eventuale recupero di tasse e contributi sui benefit esclusi fino a quel momento dalla base imponibile e il relativo aumento del costo del lavoro a carico del datore di lavoro. Per poter usufruire del beneficio, il lavoratore dovrà dichiarare al datore di lavoro di avervi diritto, indicando il codice fiscale dei figli.

La norma, inoltre, non richiede che il figlio sia a carico dell’interessato al 100%, motivo per il quale si dovrebbe ritenere che il beneficio possa essere fruito interamente anche in presenza di una detrazione ripartita con l’altro genitore, innalzando di fatto il vantaggio complessivo per la famiglia a 6mila euro.

Beni e servizi oggetto della nuova legge

Che cosa rientra tra i compensi e i servizi oggetto della nuova legge?

Per fringe benefit si intendono i compensi in natura e i servizi concessi dai datori ai dipendenti. Per esempio: i buoni spesa, le ricariche telefoniche, il premio per la polizza extraprofessionale. Insomma, voci addizionali alla retribuzione corrisposta da un’impresa ai propri dipendenti: un compenso “in natura”, che figura comunque in busta paga.

Lato azienda si tratta di somme interamente deducibili, che riducono quindi l’imponibile fiscale dell’impresa. Dal punto di vista del dipendente sono somme non soggette a contribuzione né a prelievo fiscale, ovviamente con i tetti previsti dalla legge.

Nel limite di esenzione sono da considerare, seppure secondo un valore convenzionalmente identificato dalla normativa tributaria, altri beni concessi ai dipendenti come: l’auto a uso promiscuo, i prestiti agevolati e l’alloggio.

Altro aspetto cruciale: come nel 2022, per i soli lavoratori con figli a carico, la capienza dei 3mila euro può essere raggiunta anche con somme erogate o rimborsate dai datori di lavoro per il pagamento delle utenze domestiche del servizio idrico integrato, dell’energia elettrica e del gas naturale.

Le utenze rimborsabili in esenzione fiscale devono essere riferite a un immobile a uso abitativo posseduto o detenuto, sulla base di un titolo idoneo, dal dipendente, dal coniuge o dai suoi familiari, a prescindere che gli stessi abbiano o meno stabilito la residenza o il domicilio. Inoltre, è fondamentale che le somme rimborsate siano state effettivamente sostenute dai predetti soggetti.

Fringe benefit e welfare aziendale: un utile riassunto

Per concludere, è bene ricordare, con un utile quadro riassuntivo, le norme emanate negli ultimi anni sull’argomento e di cui Assidai si è già occupato per evidenziare, anno dopo anno, l’evoluzione in termini legislativi.

Fino al 2020 per i fringe benefit era prevista una soglia di esenzione fiscale (il valore di beni e servizi che non concorre al reddito imponibile né ai contributi) di 258,23 euro, mentre con il Decreto Agosto dell’estate 2020, approntato per supportare il Paese nell’emergenza Covid, il limite fu raddoppiato a 516,46 euro.

Nel 2021 il Governo ha in sostanza confermato il robusto aumento della quota esentasse. Infine, l’anno scorso, il decreto Aiuti-Bis ha modificato il limite di detassazione fiscale e contributivo dei fringe benefit a favore dei lavoratori dipendenti, innalzando la soglia a 600 euro, con la specifica che rientrano nell’agevolazione anche le somme erogate o rimborsate dai datori di lavoro per il pagamento delle utenze domestiche del servizio idrico integrato, dell’energia elettrica e del gas naturale.

Tutti provvedimenti che – come evidenziato in precedenza – hanno rappresentato un ulteriore passo in avanti nell’espansione di un settore, quello del welfare aziendale, che negli ultimi anni è cresciuto molto, anche perché ha dimostrato la propria forza e le proprie potenzialità in termini di soddisfazione del dipendente e di produttività dello stesso, a tutto vantaggio anche dell’azienda.

A questo proposito, va ricordato che dal 2016 il Governo ha progressivamente introdotto una serie di incentivi, soprattutto di carattere fiscale, per favorire la diffusione del welfare aziendale con risultati ormai decisamente rilevanti se si pensa che ormai più di un’azienda su due lo prevede per i propri dipendenti.

Una legge per lo screening di diabete infantile e celiachia

Svolta per l’Italia che è diventato il primo Paese al mondo ad avere una legge per lo screening sistematico del diabete di tipo 1 e della celiachia nella popolazione pediatrica.

Le Camere, a settembre, hanno dato il via libera al disegno di legge che ha definito un passaggio storico; il testo è così diventato immediatamente legge ed è stato fissato l’avvio del programma pluriennale di screening su base nazionale a decorrere dall’anno 2024. Per l’attuazione del programma è stata autorizzata la spesa di 3,85 milioni di euro per ciascuno degli anni 2024 e 2025 e di 2,85 milioni di euro annui a decorrere dall’anno 2026.

Il provvedimento, inoltre, prevede e dispone sul diabete di tipo 1 e sulla celiachia, lo svolgimento di campagne periodiche di informazione e di sensibilizzazione a opera del Ministero della Salute.

La legge nel dettaglio: i quattro articoli

ll testo della legge si compone di quattro articoli.

Il primo definisce l’avvio di un programma pluriennale di screening su base nazionale nella popolazione pediatrica, da avviare a decorrere dall’anno 2024 per l’individuazione degli anticorpi del diabete di tipo 1 e della celiachia, e ha tre obiettivi: prevenire l’insorgenza di chetoacidosi in soggetti affetti da diabete di tipo 1; rallentare la progressione della malattia mediante l’impiego delle terapie disponibili; ottenere diagnosi precoci della celiachia.

Il secondo articolo prevede inoltre l’istituzione di un Osservatorio nazionale sul diabete tipo 1, presso il Ministero della Salute, composto da dieci membri, nominati con decreto da parte del Dicastero stesso.

L’articolo 3 riguarda invece le campagne periodiche di informazione e di sensibilizzazione sociale sul tema, sempre ad opera del Ministero della Salute, che deve promuovere tali iniziative con specifico riferimento all’importanza della diagnosi precoce in età pediatrica e per la conoscenza del programma di screening sopra indicato. Infine, il quarto articolo della legge detta le disposizioni finanziarie e le dotazioni dell’iniziativa.

Diabete infantile e celiachia: ecco i rischi

Per quanto riguarda il diabete infantile, a partire dall’anno prossimo la legge consentirà di prevenire, nei bambini da 1 a 17 anni, l’insorgenza dei sintomi più pericolosi del diabete di tipo 1 come la chetoacidosi, che può essere letale.

Inoltre, consentirà di avere maggiori informazioni per comprendere meglio le cause della malattia. Cosa che ovviamente amplia le possibilità di introdurre strategie farmacologiche adeguate per rallentarla e possibilmente fermarla.

Insomma, sarà un significativo strumento di tutela della salute a protezione dei bambini diabetici. Vale la pena ricordare, infatti, che, ogni anno in Italia, circa la metà dei 1400 bambini diagnosticati con diabete di tipo 1, arriva in ospedale in chetoacidosi, rischiando il coma, danni permanenti e anche la morte.

La legge permetterà anche di diagnosticare precocemente la celiachia, patologia cronica autoimmune scatenata, in soggetti geneticamente predisposti, dall’ingestione di glutine.

Lo screening per questa patologia è di importanza rilevante: in Italia, dei circa 600.000 soggetti colpiti, quasi 400.000 non sanno di essere celiaci. Un ritardo diagnostico per questa patologia causa un’infiammazione dei villi intestinali a livello dell’intestino tenue e, impedendo l’assorbimento dei nutrienti, possono verificarsi perdita di peso, diarrea e gonfiore.

FAQs

Come si capisce se un bambino ha il diabete?

La diagnosi precoce di diabete nei bambini è fondamentale.

Ecco quali sono i principali sintomi, in presenza dei quali è necessario rivolgersi tempestivamente al medico:

  • aumento della quantità di urine e della frequenza delle minzioni,
  • fame eccessiva con aumento dell’assunzione di cibo,
  • sete eccessiva con aumento dell’assunzione di liquidi,
  • dolori addominali non riconducibili ad altre malattie0,
  • dimagrimento nonostante un aumentato assunzione di cibo.
  • Tra i sintomi più gravi ci sono stato confusionale e coma.

Come riconoscere se un bambino è celiaco?

Le modalità con cui si manifesta la celiachia nei bambini sono due.

La prima è rappresentata da manifestazioni gastrointestinali che comportano:

  • scarsa crescita,
  • addome disteso,
  • diarrea,
  • vomito.

I sintomi possono essere diversamente combinati tra loro, con bambini che presentano parabole di crescite discendenti in termini di aspetto nutrizionale e peso.

La seconda è una celiachia atipica con manifestazioni assenti o riconducibili ad altri organi diversi dall’intestino, con bambini che presentano:

  • scarsa crescita,
  • anemia da ferro o acido folico non giustificata e non responsiva alla terapia con ferro.

Cosa non deve mangiare un bambino celiaco?

  • Pasta, pane, pizza in qualsiasi modo preparate a base di farina di grano,
  • Biscotti di grano, merendine e tutto quello che è preparato con farina di grano,
  • Carni, pesci e altri prodotti impanati con farina di grano,
  • Tutti quegli alimenti che riportino sull’etichetta “può contenere tracce di glutine”,
  • Alimenti cucinati nelle stesse pentole o stoviglie o supporti che hanno trattato alimenti con glutine (es. non cuocere il riso nella stessa pentola e nella stessa acqua della pasta),
  • Salse come maionese e simili, industriali, perché contengono sempre tracce di glutine.

Malattie rare, il Piano Nazionale parte con una dote di 50 milioni

Decolla il Piano nazionale delle malattie rare (PNMR) 2023-2026 con una dote iniziale di 50 milioni: metà quest’anno e metà nel 2024 finanzieranno un progetto atteso da tempo che “punta a superare le sperequazioni e le diseguaglianze nella cura e nell’assistenza, tra le Regioni ma anche all’interno delle Regioni stesse“, ha dichiarato di recente il sottosegretario alla Salute, con delega alle malattie rare, Marcello Gemmato.

Quest’ultimo ha sottolineato come “sono afflitte da queste patologie 2 milioni di persone uniformemente distribuite sul territorio, che però vedono in alcune aree l’arrivo veloce a una terapia e altre dove invece non c’è questa possibilità“.

Sicuramente, per il sottosegretario, i fondi stanziati non bastano, nel senso che non c’è limite a quanto si debba stanziare in questo settore, ma si lavorerà a “nuovi modelli organizzativi che possano andare incontro ai cittadini, cercando di ridurre le diseguaglianze e fare in modo che la diagnosi precoce avvenga per un numero sempre maggiore di persone”.

La Giornata delle Malattie Rare e il nodo sensibilizzazione

Sul tema delle malattie rare un nodo cruciale è evidentemente rappresentato dalla sensibilizzazione.

Anche per questo, ogni anno, si celebra la Giornata delle Malattie Rare: si è partiti nel 2008, con la scelta del 29 febbraio come “un giorno raro per i malati rari”! E così, anche nel 2023, l’ultimo giorno di febbraio è stata un’occasione per promuovere in tutto il mondo l’inclusione delle persone con una malattia rara e la loro partecipazione piena, equa e significativa alla società.

Assidai se ne è già occupata nei mesi scorsi con un approfondimento sulla giornata mondiale delle malattie rare.

Va ricordato che una malattia si definisce rara quando la sua prevalenza, intesa come il numero di casi presenti su una data popolazione, non supera la soglia dello 0,05%, ossia 1 caso su 2.000 persone.

Si stima che i malati rari in Italia siano oltre 2 milioni e di questi 1 su 5 è un bambino. Le malattie rare ad oggi conosciute sono tra le 7.000 e le 8.000 e sono generalmente gravi, spesso croniche, talvolta progressive, non sempre facilmente diagnosticabili.

Circa il 30% dei malati rari, infatti, non ha una diagnosi e rischia di convivere con una malattia che resterà per sempre senza nome.

La svolta sul Piano nazionale: ecco la dotazione finanziaria

Alla luce di questa situazione, assume ancora più importanza la svolta sulla dotazione finanziaria del PNMR 2023-2026, cioè del principale strumento di pianificazione centrale che rappresenta la cornice comune degli obiettivi istituzionali da implementare nel prossimo triennio, in linea con le iniziative dell’Unione Europea.

Il testo definisce gli obiettivi di programmazione nell’ambito della diagnosi, prevenzione primaria, trattamenti farmacologici e non, percorsi assistenziali, ricerca, formazione e informazione delle malattie rare, e fornisce indicazioni per l’attuazione e implementazione dei Livelli Essenziali di Assistenza e per il monitoraggio attraverso i Registri. Un Piano strutturato in capitoli verticali che includono azioni specifiche e capitoli orizzontali che prevedono azioni che contribuiscono trasversalmente a integrare tutti gli ambiti principali.

Approvato il 24 maggio in Conferenza Stato-Regioni – colmando così un vuoto di sette anni e definendo un perimetro di interventi precisi per dare risposte concrete alle persone con malattia rare e alle loro famiglie – vede dunque ora uno stanziamento di 25 milioni di euro, a valere sul Fondo sanitario nazionale, per ciascuno degli anni 2023 e 2024.
Non solo: con l’accordo in Conferenza Stato Regioni viene approvato insieme al PNMR anche il riordino della Rete Nazionale delle Malattie Rare, sempre in attuazione del Testo Unico, che disciplina i compiti e le funzioni dei Centri Regionali di Coordinamento, dei Centri di Riferimento e dei Centri di Eccellenza che partecipano allo sviluppo delle Reti di Riferimento Europee.

Un portale dedicato alle malattie rare

Va anche ricordato che di recente, il Governo ha lanciato un portale tutto dedicato alle malattie rare, nel rispetto dei principi della nostra Costituzione che difende l’universalità e l’equità del Servizio Sanitario Nazionale (SSN) e il diritto alla salute, che va tutelato sempre, ancora di più quando si è più deboli. Valori che Assidai sostiene e ribadisce con forza nell’attività divulgativa nei confronti dei propri iscritti e dei propri stakeholder.

Il sito www.malattierare.gov.it è, in particolare, frutto di un accordo di collaborazione tra il Ministero della Salute e il Centro Nazionale Malattie Rare (CNMR) dell’Istituto Superiore di Sanità, con il sostegno del Ministero dell’Economia e delle Finanze e con il supporto tecnico del Poligrafico e Zecca dello Stato.

Esso offre una raccolta di tutti i punti di riferimento sul territorio per i malati rari, dai centri di cura ai punti di informazione regionali, alle associazioni, con l’intenzione di diffondere l’informazione online su questo tema in modo integrato con le attività del Telefono verde gestito dal CNMR, e in accordo con gli obiettivi del Piano nazionale per le malattie rare e con il Dpcm sui Livelli essenziali di assistenza, i cosiddetti Lea.

Fulcro dell’intero progetto è la banca dati che ha digitalizzato il prezioso patrimonio informativo del Centro Nazionale Malattie Rare. Le informazioni sono infatti presentate in un sito di semplice consultazione dove trovare numeri e indirizzi utili, mentre una newsletter periodica consente un aggiornamento costante sui diversi aspetti che coinvolgono queste patologie.

Per ciascuna di esse insieme con il codice di esenzione sono offerte le informazioni su centri di diagnosi e cura, associazioni di volontariato e di pazienti con malattie rare, domande e risposte più frequenti e notizie varie. Inoltre, sempre la banca dati contiene anche informazioni su malattie rare non esenti. Insomma, un registro autorevole, indipendente e certificato diventato ormai un punto di riferimento a livello sanitario per l’Italia.

Anomala quantità di lipidi nel sangue: le dislipidemie e il possibile ruolo dei nutraceutici

Cosa sono le dislipidemie? Sono una serie di condizioni patologiche caratterizzate da un’anomala quantità di lipidi nel sangue e consistono, detto più semplicemente, nell’aumento del colesterolo plasmatico, dei trigliceridi o di entrambi.

Le cause possono essere genetiche o acquisite, influenzate quindi da stili di vita e alimentazione errati, mentre la diagnosi si effettua mediante esami del sangue che evidenziano l’alterazione dei valori dei grassi.

Fatta questa premessa, quel che è certo è che in Italia si tratta di una patologia tanto diffusa quanto, purtroppo, sottovalutata. Nel nostro Paese sono più di 10 milioni (circa 1 cittadino su 6) le persone colpite da dislipidemie lievi e moderate. Tuttavia, addirittura il 40% di loro, pari a 4,6 milioni di adulti, non ne è consapevole e non viene quindi trattato, con il rischio di sviluppare patologie cardiovascolari che richiedono poi trattamenti farmacologici.

È possibile però controllare il fisiologico metabolismo del colesterolo con l’assunzione di sostanze di origine naturale, con comprovata efficacia e ridotti effetti collaterali. In particolare, come sottolineato in un intervento sul sito del Sole 24 Ore da Francesco Natale, Cardiologo all’Ospedale Monaldi di Napoli, uno studio condotto su 526 pazienti, pubblicato sulla rivista scientifica “Functional Foods in Health and Disease”, ha dimostrato la riduzione di oltre il 20% dei livelli del colesterolo “cattivo” grazie alla supplementazione con un nutraceutico, già dopo 30 giorni di trattamento.

Tenere sotto controllo anche le lievi alterazioni

Si parte da un dato di fatto: la correlazione tra dislipidemie e patologie cerebro-cardiovascolari è stata scoperta ormai da diversi anni e da allora i medici hanno assunto consapevolezza dell’importanza di trattare anche il fattore di rischio lieve, che su alcuni pazienti può avere conseguenze gravi, come infarto del miocardio e aterosclerosi.

Ipercolesterolemia e aumento dei trigliceridi sono infatti condizioni asintomatiche e possono essere individuate solo attraverso esami del sangue, prescritti o come controlli di routine, o per familiarità. Fondamentale, ovviamente, la prevenzione primaria, ovvero gli stili di vita: non fumare, nutrirsi in modo corretto e praticare attività fisica in modo regolare permettono di ridurne sensibilmente le possibilità di comparsa di dislipidemie, che sono maggiori con l’aumento dell’età.

A tal proposito il Ministero della Salute – che ha dedicato un’apposita sezione del proprio sito all’Alleanza italiana per le malattie cardio-cerebrovascolari  – è molto chiaro: “Controlla ogni tanto, su indicazione del medico curante, il profilo lipidico con le analisi del sangue. Se hai una dislipidemia adotta e mantieni stili di vita salutari, in particolare quelli che contribuiscono a migliorare l’assetto lipidico (no al fumo e ai prodotti del tabacco; sana alimentazione, limitata nell’assunzione di grassi saturi; adeguata attività fisica; peso corporeo ottimale; limitazione/eliminazione del consumo di alcol), e segui scrupolosamente l’eventuale trattamento farmacologico prescritto dal medico curante”.

Una posizione confermata da Arrigo Cicero, Presidente della Società Italiana di Nutraceutica (SINut), che ricorda come le linee guida nazionali e internazionali suggeriscono l’importanza di ridurre la colesterolemia anche nelle forme di dislipidemia lievi, con il mantenimento di un’alimentazione varia ed equilibrata e un corretto stile di vita e l’associazione, se necessario, di specifici integratori alimentari. Questi prodotti, aggiunge, si sono rivelati utili nei soggetti che presentino livelli non ottimali di trigliceridi e colesterolo nel sangue e un rischio cardiovascolare non elevato, poiché permettono di mantenere i normali livelli di colesterolo e trigliceridi.

Il possibile ruolo dei nutraceutici nelle dislipidemie

Come dimostrato da alcuni studi recenti, il nutraceutico può essere un alleato importante per il trattamento delle persone con dislipidemie lievi e moderate.

Le ultime linee guida della Società Italiana di Cardiologia suggeriscono, per chi presenta colesterolemia lieve e moderata, un miglioramento dello stile di vita e l’introduzione di prodotti a base di sostanze di origine naturale.

Lo studio pubblicato su Functional Foods in Health and Disease – sottolinea Il Sole 24 Ore – è frutto di una collaborazione tra lo specialista e il medico di medicina generale: si tratta di una sinergia fondamentale per la prevenzione delle malattie cardiovascolari, che permette di raggiungere rapidamente il target di trattamento, con un migliore risultato di prevenzione. Il trattamento long-term a base di nutraceutici, come tutti i trattamenti a lunga durata, presenta un grosso ostacolo: l’aderenza al protocollo.

Per questo, la collaborazione stabilita con il medico di famiglia, che ha un rapporto privilegiato con l’assistito, è una delle armi più efficaci. Detto in altre parole, l’offerta di nutraceutici è molto vasta, ognuno di essi presenta principi attivi e proprietà salutistiche differenti, non adatte al trattamento di tutti i soggetti.

Per questo è importante che la persona non scelga in autonomia, ma si rivolga al proprio medico, al biologo nutrizionista o al farmacista. Il prodotto dovrebbe essere scelto sulla base della qualità della materia prima e della formulazione, che spesso prevede più attivi combinati, per sfruttare i molteplici meccanismi d’azione.

Assidai e il ruolo chiave della prevenzione primaria

Sullo sfondo, resta in ogni caso la prevenzione primaria in cui crede fortemente Assidai, il Fondo di assistenza sanitaria integrativa di emanazione Federmanager, che si prende cura di manager, quadri e consulenti e delle loro famiglie in ogni momento della loro vita, soprattutto nei momenti più critici legati allo stato di salute.

La prevenzione, anche nel caso di dislipidemie o cronicità è un pilastro per evitare l’insorgere. Va ricordato, infatti, come le malattie cardiovascolari rappresentino, insieme a tumori, patologie respiratorie croniche e diabete, il principale problema mondiale di sanità pubblica.

Queste malattie croniche non trasmissibili sono, infatti, la prima causa di invalidità e mortalità e il loro impatto provoca danni umani, sociali ed economici elevati. L’Europa, in particolare, presenta il più alto carico di queste patologie e il nostro Paese non fa eccezione.

Rientrano in questo gruppo di malattie, tra le altre, le più frequenti patologie di origine arteriosclerotica, in particolare le malattie ischemiche del cuore (infarto acuto del miocardio, sindrome coronarica acuta e angina pectoris), le malattie cerebrovascolari e le arteriopatie periferiche.

In una recente intervista rilasciata a Welfare 24, house organ di Assidai realizzato in collaborazione con Il Sole 24 Ore, il Ministro della Salute, Orazio Schillaci, ha dichiarato: “La maggior parte dei tumori è prevenibile attraverso stili di vita sani e corretti. Fumo, alcol, alimentazione scorretta, sedentarietà: bisogna agire su questi fattori di rischio incentivando comportamenti salutari. Per questo è fondamentale continuare a informare e sensibilizzare le persone, a cominciare dai più giovani, sin dalle scuole elementari”.

Dall’Italia un disegno di legge contro la carne sintetica

L’Italia impone lo stop al cibo sintetico, con particolare attenzione alla carne sintetica e a quella cosiddetta “coltivata“.

Con il disegno di legge approvato dal Consiglio dei ministri del 28 marzo, infatti, si è deciso che:

«è vietato agli operatori del settore agroalimentare e a quelli del settore dei mangimi impiegare nella preparazione degli alimenti, bevande e mangimi, vendere, detenere per vendere, importare, produrre per esportare, somministrare oppure distribuire per il consumo alimentare alimenti o mangimi costituiti, isolati o prodotti a partire da colture cellulari o da tessuti derivanti da animali vertebrati”.»

Una netta presa di posizione, che prevede anche un quadro sanzionatorio rilevante (multe comprese tra 10mila e 60mila euro, ma che possono arrivare anche a coprire il 10% del fatturato dell’operatore che ha violato il divieto, se superiore a 60mila euro), su un tema quanto meno controverso, visto che alcuni considerano proprio la carne sintetica come un mezzo per abbattere le emissioni di gas serra e fornire al pianeta alimenti proteici a basso costo e ridotto impatto ambientale.

La mossa del Governo

La decisione del Governo era stata anticipata nei giorni scorsi dal Ministro dell’Agricoltura e della Sovranità alimentare, Francesco Lollobrigida, che presentando il provvedimento con cui è stata autorizzata in Italia (a precise condizioni) la messa in vendita delle farine di insetti aveva chiarito come sarebbero state “completamente diverse le regole sul cibo sintetico”.

Infatti, aveva aggiunto il politico, mentre le farine di insetti sono sì prodotti che non fanno parte della nostra cultura alimentare ma restano comunque naturali, gli alimenti iperprocessati non lo sono, né si possono escludere possibili effetti negativi sulla salute umana.

Per questo, mentre per le farine di insetti è bastato fissare regole commerciali (con precise indicazioni in etichetta, scaffali distinti nella grande distribuzione), per il cibo sintetico anche in base a un principio di precauzione l’idea di fondo è quella del divieto di produzione e commercializzazione. Divieto che però – aspetto cruciale – non si potrà estendere anche ai cibi sintetici prodotti in altri Stati che, in virtù del provvedimento appena emesso, dovranno trovare autonomi canali di distribuzione nel nostro paese.

La storia della carne sintetica

Un pochino di storia. Il primo hamburger 2.0 – ricorda un articolo del Sole 24 Ore.com – è stato prodotto dieci anni fa, nel 2013, nel laboratorio di Mark Post, cardiologo e professore di fisiologia vascolare all’Università di Maastricht, con uno sforzo finanziario non da poco: 250mila euro per 150 grammi di macinato. Un prezzo simbolico che include i costi di tutta la ricerca alla base dell’hamburger sintetico, nato da una coltura di cellule staminali bovine, a partire da un frammento estratto con una biopsia indolore dai muscoli del collo di una mucca.

Il Dott. Post stimò allora che in pochi anni i surrogati sintetici sarebbero diventati competitivi come le polpette vendute al supermercato, grazie alle economie di scala. Dopo un decennio, infatti, lo stesso hamburger può stare sul mercato a 4 dollari e gli analisti di Barclays stimano che il giro d’affari della carne sintetica sia destinato a raggiungere i 450 miliardi di dollari nel 2040, ossia il 20% del mercato globale della carne.

Il sistema appena illustrato, portato su scala industriale, sarà in grado di produrre da una sola cellula 10 mila chili di carne. In pratica quelle cellule per diventare hamburger impiegano poche settimane, mentre attraverso la crescita naturale di un bovino occorre un anno e mezzo.

A livello di Paesi, fra i più avanzati in questo ambito spiccano Singapore, città-Stato che importa il 90% del cibo, e Israele. In Italia la realtà pioniera è Bruno Cell: una startup nata nel Centro di Biologia Integrata di Trento, progetto dell’Università insieme alla Provincia Autonoma.

I vantaggi della carne sintetica

Quali sarebbero i vantaggi della carne sintetica? Innanzitutto, di carattere ambientale.

Gli allevamenti sono responsabili del 14,5% dei gas serra, e quelli intensivi sono la causa principale anche della deforestazione. E poi c’è il tema del dispendio idrico, sempre più d’attualità alla luce del recente crollo delle precipitazioni. Per un chilogrammo di carne bovina – sostengono gli esperti – servono in media 11.500 litri d’acqua, mentre per la stessa quantità di carne “coltivata” bastano tra 367 e 521 litri, mentre il consumo di suolo si riduce del 99%. Poi, come evidenziato da un articolo della giornalista Milena Gabbanelli su Corriere.it, ci sono ragioni sanitarie: l’allevamento intensivo è fonte di epidemie (mucca pazza, influenza suina, aviaria), mentre l’uso massiccio di antibiotici a scopo preventivo contribuisce a provocare l’antibiotico-resistenza negli esseri umani.

Infine, le ragioni etiche: ogni anno sono allevati 60 miliardi di animali, la maggior parte prima di finire al macello vive in condizioni di tortura per ottenere massima produttività. Il tutto può essere riassunto con una frase pronunciata da Winston Churchill nel lontano 1931: “Tra cinquant’anni la smetteremo con l’assurdità di allevare un pollo intero per mangiarne solo il petto o le ali. Faremo crescere queste parti separatamente, con l’aiuto di mezzi adatti”.

Sicurezza alimentare

Altra domanda cruciale: dal punto di vista della sicurezza alimentare, il consumo di carne coltivata rappresenta un rischio per la salute umana?

La risposta è negativa secondo un articolo di approfondimento della Fondazione Umberto Veronesi. In Unione Europea la carne coltivata è considerata un “novel food” e quindi deve sottostare a stretti controlli e normative che regolamentano l’introduzione di questi alimenti sul nostro mercato, si spiega, come avviene anche per i prodotti che contengono insetti.

In Italia risulta già obbligatorio per legge riportare gli ingredienti e la provenienza degli alimenti in etichetta; pertanto, la carne coltivata potrà essere consumata da tutti coloro che liberamente e in modo informato decidono di acquistarla.

«Qualora l’Autorità Europea sulla Sicurezza Alimentare (EFSA) dovesse approvare la sicurezza della carne coltivata, questa potrà entrare nel mercato europeo e potrà essere acquistata – aggiunge la Fondazione Veronesi – Il disegno di legge emanato dall’attuale governo dovrà pertanto sottostare alla decisione dell’Unione Europea, mettendo la popolazione italiana nella condizione di poter acquistare questa carne coltivata purché non abbia provenienza italiana.

Mettendo da parte questo concetto, uno degli aspetti che mette in dubbio la sicurezza di questo prodotto è la modalità con cui è realizzato. Ancora una volta ci si trova davanti a un tema molto polarizzante: naturale verso “sintetico” (anche se in realtà questo termine non è corretto perché la carne coltivata è prodotta in laboratorio a partire da cellule animali)”.»

Una cosa è certa: al di là della provenienza della carne, l’elemento fondamentale alla base della nostra dieta deve essere la varietà, con una forte predilezione per frutta e verdura. Come spesso ricordato da Assidai, Fondo di assistenza sanitaria integrativa di emanazione Federmanager, nelle proprie informative agli iscritti e nell’attività di divulgazione quotidiana sui mezzi di comunicazione, un’alimentazione equilibrata – insieme con l’adozione di stili di vita sani – rappresenta uno dei pilastri della cosiddetta prevenzione primaria, principale strumento a nostra disposizione per evitare l’insorgere delle malattie croniche.

La posizione di Coldiretti

Infine, sul tema della carne sintetica, va registrata anche la posizione di Coldiretti, che ha promosso il disegno di legge del Governo, poiché risponde – ha commentato il Presidente Ettore Prandini – alle richieste di mezzo milione di italiani che hanno firmato la petizione che abbiamo promosso per salvare il Made in Italy a tavola dall’attacco delle multinazionali.

Secondo Coldiretti si tratta di una

«pericolosa deriva che mette a rischio il futuro della cultura alimentare nazionale, delle campagne e dei pascoli e dell’intera filiera del cibo Made in Italy e la stessa democrazia economica”. […] Le bugie sul cibo in provetta confermano che c’è una precisa strategia delle multinazionali che, con abili operazioni di marketing, puntano a modificare stili alimentari naturali fondati sulla qualità e la tradizione.

La verità è che non si tratta di carne ma di un prodotto sintetico e ingegnerizzato, che non salva l’ambiente perché consuma più acqua ed energia di molti allevamenti tradizionali, non aiuta la salute perché non c’è garanzia che i prodotti chimici usati siano sicuri per il consumo alimentare e, inoltre, non è accessibile a tutti poiché è nelle mani di grandi multinazionali»,

ha concluso Prandini.

Un 2022 record per donazioni e trapianti di organi

Nel 2022 per la prima volta le donazioni di organi in Italia hanno superato quota 1.800 in un anno, con un significativo incremento anche dei trapianti: 3.887, il secondo miglior risultato di sempre. Inoltre, c’è stato un trend in crescita evidente delle donazioni di organi e di trapianti, già segnalato nel 2021, con un recupero totale ai livelli pre Covid, cosa che colloca l’Italia ai primi posti in Europa.

Ecco il quadro in deciso progresso che emerge dal recente report sull’attività di donazione e trapianti relativi al 2022 elaborato dal Centro Nazionale Trapianti (Cnt) e presentato di recente dal Ministro della Salute, Orazio Schillaci, insieme al Direttore del Cnt, Massimo Cardillo, e al Presidente dell’Istituto Superiore di Sanità, Silvio Brusaferro.

Il Ministro Schillaci ha commentato i dati in modo positivo, ricordando tuttavia come ci siano ancora molti pazienti in attesa di un trapianto. Inoltre, ha sottolineato l’importanza di continuare a investire sulla promozione della cultura della donazione, annunciando che “quest’anno la Giornata Nazionale per la Donazione di Organi e Tessuti si terrà domenica 16 aprile”. In tale occasione il Ministero della Salute farà partire la nuova campagna annuale, che rappresenta uno dei principali momenti di informazione e sensibilizzazione per i cittadini.

Una ricorrenza importante, come molte altre in ambito socio-sanitario, che rappresentano un utile momento di riflessione per tutti i cittadini; su questi temi Assidai è molto attento essendo un Fondo di assistenza sanitaria integrativa che informa i manager, quadri e consulenti iscritti insieme alle loro famiglie e promuove la cultura della salute verso i propri iscritti e stakeholder, perché il benessere degli iscritti e delle loro famiglie è prioritario per un Fondo di natura non profit, come il nostro, i cui valori sono la solidarietà e la mutualità.

Donazioni: Italia terza in Europa

Guardando al report del Centro Nazionale Trapianti nel dettaglio, emerge come le donazioni di organi solidi sono state complessivamente 1.830 (+3,7% sul 2021), 1.461 da donatori deceduti e 369 da viventi. Un risultato frutto in particolare di un nuovo aumento delle donazioni potenziali segnalate in rianimazione (2.662, +4,1%), che fanno un nuovo passo verso i livelli pre-Covid (la pandemia, d’altra parte, aveva avuto il suo impatto più forte proprio sulle terapie intensive), sottolinea il rapporto.

Per questo motivo il tasso nazionale di donazione per milione di popolazione risulta il più alto di sempre (24,7) e pone ancora una volta l’Italia ai vertici europei dietro alla Spagna e insieme alla Francia. La regione con il tasso di donazione più elevato si conferma la Toscana (49,3 donatori per milione) ma va segnalato l’aumento rilevante del tasso in Emilia-Romagna (46, +8,8 sul 2021) e il buon risultato del Veneto (36,3, +6,2). Ancora indietro nel complesso il Centro-Sud, con qualche lieve segnale di crescita in Lazio, Campania e Calabria.

Dati record anche sui trapianti

Diretta conseguenza dell’incremento delle donazioni è stato l’aumento dei trapianti: il numero complessivo ha raggiunto 3.887, quasi 100 in più rispetto al 2021 (+2,5%) e secondo miglior risultato di sempre, con tassi regionali in crescita quasi ovunque: la Lombardia si conferma la regione nella quale si realizzano più interventi seguita da Veneto (che è la prima in rapporto alla popolazione), Piemonte, Emilia-Romagna e Lazio.

Guardando al dettaglio dei singoli organi sono stabili i trapianti di rene (2.038, 4 in meno che nel 2021 a causa di una lieve contrazione delle donazioni da vivente) e quelli di cuore (254 pari a +0,8%). Si registra un aumento molto significativo di quelli di fegato (1.474 pari a +5,6%), mai così tanti, e di quelli di polmone (138, +17,9%), la specialità più penalizzata negli anni della pandemia; in calo i trapianti di pancreas, che scendono da 54 a 38. Da ricordare nel 2022 la realizzazione del secondo trapianto italiano di utero a Catania (il terzo è stato effettuato il 12 gennaio scorso) e la nascita di una bambina grazie al primo trapianto, quello del 2020. È stato effettuato anche un trapianto multiviscerale intestino-fegato-pancreas: complessivamente i trapianti combinati sono stati 56.
Numeri importanti anche per l’attività di donazione di tessuti, molto penalizzata durante la pandemia, ma che per il secondo anno di fila cresce considerevolmente: i prelievi nel 2022 sono stati 11.031 (+10,4%), con aumenti importanti per le cornee e il tessuto muscolo-scheletrico. Inoltre, è stato un 2022 da record per l’attività riguardante midollo osseo e cellule staminali emopoietiche: sono state 329 le donazioni effettive realizzate (+9,7%) e 961 i trapianti (+3,1%), miglior risultato di sempre in entrambi i casi.

Il nodo delle dichiarazioni di volontà

Sullo sfondo resta il tema delle dichiarazioni di volontà alla donazione depositate nel Sistema informativo trapianti al 31 dicembre 2022, fermo restando il fatto che si tratta di una scelta assolutamente personale.

Le dichiarazioni hanno superato quota 14 milioni e mezzo: 72% i consensi e 28% le opposizioni. Quelle registrate nel solo 2022 nei Comuni italiani attraverso il sistema CIE (carta d’identità elettronica) sono state 2,7 milioni, con una percentuale di no del 31,8% (+0,7% rispetto al 2021). In generale si è espresso (positivamente o negativamente) il 55,5% dei cittadini che hanno fatto richiesta del documento, mentre gli altri hanno deciso di non registrare alcuna indicazione.

“Le opposizioni registrate in vita restano alte, specialmente nelle regioni del Sud dove sfiorano o in qualche caso superano il 40%: un dato che conferma la necessità di sensibilizzare soprattutto due fasce d’età: i 18-30enni (tra i quali la percentuale di opposizione è più alta rispetto ai 30-40enni, e questo è particolarmente valido per i neo-maggiorenni) e gli over 60, tra i quali è frequente la convinzione che la donazione sia impossibile per ragioni anagrafiche: il recente trapianto di fegato realizzato in Toscana grazie alla donazione di una donna di quasi 101 anni (la più longeva di sempre a livello mondiale) dimostra che l’età non è ostacolo alla donazione”, conclude il report del Centro Nazionale Trapianti.

Giornata delle Malattie Rare, iniziative e obiettivi

La prima Giornata delle Malattie Rare è stata celebrata nel 2008, con la scelta del 29 febbraio come “un giorno raro per i malati rari”! E così, anche quest’anno, l’ultimo giorno di febbraio è stata un’occasione per promuovere in tutto il mondo l’inclusione delle persone con una malattia rara e la loro partecipazione piena, equa e significativa alla società.

Va ricordato che una malattia si definisce rara quando la sua prevalenza, intesa come il numero di casi presenti su una data popolazione, non supera la soglia dello 0,05%, ossia 1 caso su 2.000 persone. Si stima che i malati rari in Italia siano oltre 2 milioni e di questi 1 su 5 è un bambino. Le malattie rare ad oggi conosciute sono tra le 7.000 e le 8.000 e sono generalmente gravi, spesso croniche, talvolta progressive, non sempre facilmente diagnosticabili. Circa il 30% dei malati rari, infatti, non ha una diagnosi e rischia di convivere con una malattia che resterà per sempre senza nome.

L’iniziativa di sensibilizzazione “Scienza partecipata”

Di fronte a numeri di questa entità è evidente che un elemento cruciale è quello della sensibilizzazione, per evitare che chi viene colpito da una malattia rara non resti “invisibile” alla società o, peggio, abbandonato a sé stesso.

A tal proposito, tra le iniziative promosse negli ultimi giorni spicca “Scienza partecipata”, illustrata nel corso di un convegno organizzato, a Roma, dal Comitato nazionale per le malattie rare (Cnmr) e da Uniamo (Federazione italiana malattie rare Onlus), proprio in occasione della Giornata mondiale delle malattie rare.

Si tratta, in buona sostanza, di alcune soluzioni, idee o invenzioni finalizzate a migliorare la qualità della vita delle persone colpite da queste patologie. Qualche esempio? Un programma radiofonico condotto da pazienti, una moka che si può stringere con una mano sola, un videogioco per spiegare come gestire il sacchetto nei pazienti stomizzati e incontinenti, una rete di strutture turistiche con ausili specifici, gestite e rivolte da chi ha particolari esigenze dettate dalla propria condizione di salute.

Gli obiettivi: diagnosi più veloci e meno disagi sociali

“Le malattie rare – ha sottolineato Domenica Taruscio, già Direttore del Cnmr e ideatrice del progetto – sono caratterizzate da diversi aspetti: ritardi nella diagnosi, costi di cure che sono spesso elevati, disagi sociali che di conseguenza generano emarginazione e solitudine, scarse informazioni disponibili”. A maggior ragione quindi, è importante migliorare, con piccoli accorgimenti quotidiani, la vita di chi è colpito da queste patologie.

“I progetti sono un bellissimo laboratorio di pratica, in buona parte attuabili con pochi euro o con minimi cambiamenti organizzativi, per cambiare concretamente alcune cose”, ha aggiunto Annalisa Scopinaro, Presidente di Uniamo. La stessa Scopinaro ha fatto notare come varie indagini hanno permesso di quantificare in oltre quattro anni il ritardo diagnostico per le persone con malattia rara, senza mettere in conto coloro che stanno ancora aspettando un nome per la loro patologia

Quindi, “è necessario aumentare le patologie indagate e studiate via via che si sviluppano terapie, con procedimenti burocratici più snelli, sviluppando nel contempo un’accurata presa in carico successiva alla diagnosi”. Basti pensare che i bisogni dei bambini con malattie rare sono cambiati notevolmente negli anni, in rapporto a nuove e sempre più efficaci opportunità di diagnosi, cura e prevenzione.

“Anche quest’anno – ha concluso Scopinaro – è stata una campagna molto intensa: ci ha portato ad attraversare otto regioni in Italia, con eventi che hanno visto la partecipazione delle istituzioni, degli enti, dei politici, di tantissime associazioni. Lo scopo è stato raggiungere e sensibilizzare un pubblico sempre più ampio sul lungo percorso che compiono i pazienti quando affrontano la malattia, partendo dal momento del percorso diagnostico. È fondamentale accendere tutti i riflettori possibili, perché le persone colpite da una malattia rara ancora oggi hanno una diagnosi che ritarda quattro anni in media, a volte sette, a volte venti, a volte non vengono mai diagnosticati”.

Marcello Gemmato, sottosegretario alla Salute con delega alle malattie rare, ha chiosato: “Abbiamo celebrato questa importante giornata con due certezze: una l’approvazione del Piano delle Malattie rare, l’altra la certezza di avere una serie diffusa sul territorio di associazioni che affrontano le malattie rare. Uniamo la politica per andare incontro ai nostri malati”.

Approvato il Piano Nazionale Malattie Rare

Va ricordato, infatti, che nel 1993 le malattie rare sono state dichiarate una priorità per la sanità pubblica dalla Commissione Europea e, come anticipato sopra, nel 2008 è stata istituita la Giornata delle Malattie Rare. In tutti questi anni molti importanti risultati sono stati raggiunti, tra questi la recente approvazione del testo finale del Piano Nazionale Malattie Rare (Pnmr) 2023-2025, che delinea gli obiettivi su diagnosi, cure, formazione e informazione, per affrontare le malattie rare e per migliorare il più possibile la qualità di vita di chi ne è affetto ed il cui iter proseguirà con il passaggio in Conferenza Stato-Regioni.

Un risultato importante, anche se per darne piena attuazione occorreranno risorse economiche e un percorso sanitario omogeneo e sempre più efficiente, con personale adeguatamente formato e centri attrezzati per diagnostica e terapie mirate, che oggi risultano ancora, purtroppo, insufficienti.

La ricerca sulle malattie rare, infatti, va avanti, così come le possibilità di cura, ma bisogna anche pensare ad ottimizzare le risorse e rendere unico il percorso diagnostico, a partire dallo screening neonatale, uno strumento importante per la diagnosi precoce di queste malattie. A questo proposito, l’Italia è il primo Paese in Europa per numero di patologie inserite nello screening neonatale esteso (49), con una legge che ha permesso la costruzione della rete (279/2001) e con l’arrivo dei decreti nazionali di allargamento del panel, si potrebbe dare questa opportunità anche a bimbi affetti da ulteriori malattie.

Un portale tutto dedicato alle malattie rare

Di recente, il Governo ha lanciato un portale tutto dedicato alle malattie rare, nel rispetto dei principi della nostra Costituzione che difende l’universalità e l’equità del Servizio Sanitario Nazionale (SSN) e il diritto alla salute, che va tutelato sempre, ancora di più quando si è più deboli. Valori che Assidai sostiene e ribadisce con forza nell’attività divulgativa nei confronti dei propri iscritti e dei propri stakeholder.

Il sito www.malattierare.gov.it è, in particolare, frutto di un accordo di collaborazione tra il Ministero della Salute e il Centro Nazionale Malattie Rare (CNMR) dell’Istituto Superiore di Sanità, con il sostegno del Ministero dell’Economia e delle Finanze e con il supporto tecnico del Poligrafico e Zecca dello Stato. Esso offre una raccolta di tutti i punti di riferimento sul territorio per i malati rari, dai centri di cura ai punti di informazione regionali, alle associazioni, con l’intenzione di diffondere l’informazione online su questo tema in modo integrato con le attività del Telefono verde gestito dal CNMR, e in accordo con gli obiettivi del Piano nazionale per le malattie rare e con il Dpcm sui Livelli essenziali di assistenza, i cosiddetti Lea.

Fulcro dell’intero progetto è la banca dati che ha digitalizzato il prezioso patrimonio informativo del Centro Nazionale Malattie Rare. Le informazioni sono infatti presentate in un sito di semplice consultazione dove trovare numeri e indirizzi utili, mentre una newsletter periodica consente un aggiornamento costante sui diversi aspetti che coinvolgono queste patologie. Per ciascuna di esse insieme con il codice di esenzione sono offerte le informazioni su centri di diagnosi e cura, associazioni di volontariato e di pazienti con malattie rare, domande e risposte più frequenti e notizie varie.

Inoltre, sempre la banca dati contiene anche informazioni su malattie rare non esenti. Insomma, un registro autorevole, indipendente e certificato diventato ormai un punto di riferimento a livello sanitario per l’Italia.

Cancro al colon-retto, svolta chirurgica con un nuovo protocollo

Una diversa e nuova filosofia di gestione del paziente nel periodo precedente a un’operazione per cancro al colon-retto e, al tempo stesso, un approccio multidisciplinare, in cui è necessario coordinare le diverse figure professionali che ruotano intorno al paziente stesso: chirurgo, anestesista, fisioterapista, nutrizionista e, non ultimo, infermiere.

In questi processi si sintetizza il protocollo Eras, Enhanced Recovery After Surgery, ovvero “miglior recupero post intervento chirurgico”. Il tutto con l’obiettivo di ridurre lo stress operatorio e migliorare la risposta dell’organismo all’operazione. In chirurgia colorettale – nel cui ambito è stata eseguita un’ampia ricerca sul tema – dopo alcune difficoltà iniziali, l’applicazione del protocollo Eras si è fortemente affermata ed è diventato di uso frequente, per cui anche la percentuale di aderenza è aumentata nel corso degli anni.

In altre parole, si tratta di un percorso integrato, che permette di ottenere decorsi migliori e un più rapido recupero nei pazienti sottoposti a interventi chirurgici per neoplasie del colon retto, che rappresentano il 10% di tutti i tumori diagnosticati nel mondo e colpiscono principalmente gli uomini tra i 50 e i 70 anni.

La svolta del protocollo Eras

Il protocollo Eras è stato adottato da diversi ospedali italiani, tra cui il Versilia di Lido di Camaiore. In una recente intervista al quotidiano “La Nazione”, il Direttore della struttura di Chirurgia generale, Dott. Marco Arganini ha ricostruito caratteristiche e benefici di questo percorso pre-operatorio, che ha acquisito maggior valore soprattutto negli ultimi anni, durante i quali – spiega – si è assistito a un forte incremento della patologia nella popolazione anziana ultrasettantenne, con localizzazione prevalente a carico del colon destro.

L’elevata incidenza delle neoplasie colon rettali in età avanzata espone peraltro i pazienti, spesso soggetti fragili, a decorsi post-operatori complicati sia per evenienze specifiche dell’intervento che generiche (polmoniti, infezioni urinarie). Ecco perché, per migliorare il risultato dell’intervento chirurgico in termini non solo di complicanze, ma anche di cura della malattia, negli ultimi anni è stato messo a punto un percorso finalizzato a condurre il paziente all’intervento nelle migliori condizioni generali possibili, consentendo anche una rapida ripresa e una precoce dimissione. “Il protocollo su cui è basato il percorso Eras – fa notare il Dott. Marco Arganini – è strutturato per ottenere la riduzione dello stress e il mantenimento delle fisiologiche funzioni nel post-operatorio, accelerando così il recupero”.

Inoltre, i professionisti coinvolti nella cura del paziente – l’anestesista, il chirurgo, il geriatra, il medico riabilitatore, il nutrizionista, l’infermiere di reparto e di sala operatoria – lavorano in sinergia e valutano collegialmente il paziente, con l’obiettivo di migliorarne la performance al momento dell’intervento.

I punti chiave del percorso

Ma che cosa prevede esattamente il protocollo Eras? La fase iniziale del percorso è volta a fornire al paziente, ovviamente preoccupato da quanto lo aspetta, tutte le informazioni sulle fasi dell’intervento. In un incontro con tutto il gruppo di professionisti coinvolti nella cura, il paziente e i parenti si confrontano con il chirurgo, con l’anestesista e soprattutto con il personale infermieristico, ovvero con tutte le figure professionali che hanno un ruolo di rilievo nel percorso chirurgico.

L’attenta valutazione preoperatoria multidisciplinare è particolarmente utile per ottenere un miglioramento delle condizioni generali del paziente che, come un atleta, deve affrontare la gara nelle migliori condizioni possibili. Per esempio, la sospensione del fumo e del consumo di alcol sono utili nel ridurre le complicanze respiratorie e le infezioni post-operatorie, così come l’attività fisica e gli esercizi indicati dal medico riabilitatore, focalizzati sulle fragilità del paziente stesso, giocano un ruolo decisivo nel riportarlo rapidamente, nel post-operatorio, alle sue normali condizioni.

Attenzione anche all’eventuale contemporanea presenza di anemia e malnutrizione e alla correzione di questi parametri con un’adeguata integrazione nutrizionale e infusione di ferro: la correzione di questi parametri è cardine fondamentale del percorso. L’assunzione di carboidrati e liquidi per bocca fino a poche ore prima dell’intervento, differentemente dal digiuno protratto in uso nella chirurgia tradizionale, gioca poi un ruolo specifico nel ridurre gli effetti del trauma chirurgico sul metabolismo.

Altro aspetto cruciale, sottolineato dal Dott. Marco Arganini: “Il percorso Eras oltre a determinare la riduzione delle giornate di degenza, consente attraverso l’ottimizzazione dell’utilizzo delle risorse professionali in associazione con la chirurgia mininvasiva, la realizzazione di una terapia di precisione che tiene conto delle differenze individuali del paziente in termini di stile di vita e ambiente, conciliandosi con la imprescindibile sostenibilità economica del sistema sanitario”.

Sostenibilità del Servizio Sanitario Nazionale e prevenzione primaria

Proprio la sostenibilità del Sistema sanitario italiano, praticamente unico al mondo per le sue caratteristiche di equità e universalità, è uno dei temi più cari ad Assidai, così come il concetto che la sanità privata può rappresentare soltanto un supporto, e mai un’alternativa a quella pubblica.

Tra i fattori che contribuiscono alla sostenibilità del SSN c’è anche la prevenzione primaria, altra pietra miliare della mission di Assidai, oltre che nostro principale strumento a disposizione per la riduzione dell’incidenza delle malattie croniche, tra le quali c’è anche il tumore al colon retto.

L’adozione di stili di vita corretti, un’alimentazione equilibrata e varia, lo stop all’utilizzo di vino e tabacco e un’attività fisica frequente rappresentano infatti i principali comportamenti che possiamo attuare per limitare patologie cardiocircolatorie, diabete e cancro, responsabili della maggior parte dei decessi a livello mondiale.

Il Ministro della Salute Schillaci: stili di vita cruciali

Il valore della prevenzione primaria è stato evidenziato di recente anche dal Ministro della Salute, On. Orazio Schillaci, che ha firmato la prefazione della nuova edizione de “I numeri del cancro 2022”, studio prezioso per porre l’attenzione su un ambito prioritario nelle politiche sanitarie del nostro Paese. Nato dalla collaborazione tra AIOM (Associazione Italiana di Oncologia Medica), AIRTUM (Associazione Italiana Registri Tumori), Fondazione AIOM, ONS (Osservatorio Nazionale Screening), PASSI (Progressi delle Aziende Sanitarie per la Salute in Italia), PASSI d’Argento e SIAPEC-IAP (Società Italiana di Anatomia Patologica e di Citologia Diagnostica), il volume – ha sottolineato il ministro – costituisce un supporto di grande valore per il Servizio Sanitario Nazionale, per il Ministero della Salute e, indubbiamente, per i pazienti oncologici, ai quali, mai come adesso, è necessario offrire le pratiche migliori di prevenzione, cura e assistenza.

Come emerge dallo studio, “a seguito di decenni caratterizzati da notevoli progressi, la pandemia di Covid-19 ha determinato una battuta d’arresto nella lotta al cancro, causando in Italia, nel complesso, un forte rallentamento delle attività diagnostiche in campo oncologico, con conseguente incremento delle forme avanzate della malattia. Questi ritardi sicuramente influiranno sull’incidenza futura delle patologie neoplastiche”. In numeri, la stima del numero di nuovi casi di tumore nel 2022 parla di un numero complessivo di nuove diagnosi pari a 390.700 (205.000 negli uomini e 185.700 nelle donne). Erano 376.600 (194.700 negli uomini e 181.900 nelle donne) nel 2020. Una dinamica, dunque, purtroppo ascendente che potrebbe però essere legata anche all’invecchiamento della popolazione.

In ogni caso, conclude il Ministro nella propria prefazione, “per quanto riguarda i fattori di rischio comportamentali, i dati raccolti durante il biennio 2020-2021 segnano un momento di accelerazione per lo più in senso peggiorativo. Si tratta di un dato che non può non destare preoccupazione se si considera che il 40% dei casi e il 50% delle morti oncologiche possono essere evitati intervenendo su fattori di rischio prevenibili, soprattutto sugli stili di vita”.

Dunque, “alla luce di questo scenario, è quanto mai urgente puntare sul tempestivo ripristino dei programmi di screening e di tutte quelle iniziative essenziali per fronteggiare una delle sfide principali per la salute globale”.

Legge Sirchia, 20 anni dopo meno fumatori e malati

Vent’anni fa, per l’esattezza il 16 gennaio 2003, veniva approvata la “Tutela della salute dei non fumatori”, anche nota come “legge Sirchia”, una delle norme più coraggiose a tutela della salute pubblica.

Girolamo Sirchia era l’allora Ministro della Salute, che riuscì a condurre in porto quella che, per diversi anni, era sembrata un’impresa quasi impossibile: affermare il diritto delle persone di non essere esposte al fumo passivo. A ben venti anni di distanza quali sono stati gli effetti di questa svolta sulla salute degli italiani e sul numero di fumatori nel nostro Paese? La risposta è: sicuramente positiva, anche se – in particolare per il secondo aspetto – l’ultimo triennio, segnato dal Covid, ha registrato una preoccupante inversione di rotta.

La nascita della legge Sirchia

Che cosa prevedeva la Legge Sirchia? Innanzitutto va ricordato che tre anni prima, un altro ministro della Salute, il Professor Umberto Veronesi, uno dei più famosi oncologi del nostro Paese, aveva provato a promuovere senza successo un provvedimento simile. La norma del 2003 di Sirchia sarebbe entrata in vigore soltanto il 10 gennaio 2005 e si proponeva di proteggere la salute dei non fumatori in tutti i luoghi chiusi.

Niente più fumo passivo obbligato, quindi, alla macchinetta del caffè in ufficio, al bancone del bar, in pizzeria, sui treni. Oltre al divieto di fumo, dovevano essere affissi cartelli appositi, identificati i responsabili dell’applicazione della norma, previste multe per i fumatori che la violavano e per gli esercenti inadempienti, fissati stretti criteri per le aree fumatori, dove consentite (ventilazione, superfici, collocazione, barriere, segnalazioni).

Contrariamente alle più fosche aspettative, – ricorda un approfondimento sul sito della Fondazione Umberto Veronesi – quando i nuovi limiti entrarono in vigore, nel 2005, la gente non smise di uscire per mangiare, bere e incontrarsi. Ma si adattò e, anzi, accolse la misura con favore. Un’indagine dell’Istituto Superiore di Sanità (ISS) sui proprietari di pub e ristoranti rilevò che dopo l’entrata in vigore della legge antifumo solo il 2% aveva registrato proteste da parte dei clienti, favorevoli nel 76% dei casi, e solo l’11% aveva riportato perdite finanziarie significative.

Nel 2005, il 90% degli italiani intervistati si dichiarava a favore dei limiti al fumo nei luoghi chiusi e nel 2006 l’88% riteneva che la norma fosse rispettata senza problemi. Questa tendenza si è rafforzata nel tempo ed è cambiata anche la percezione del fumo nei luoghi privati: nel 2008 il 70% degli italiani dichiarava di non consentire il fumo in casa, in nessuna stanza, nel 2021 la percentuale era salita all’88,6%.

Il calo del numero di fumatori

Ma la domanda chiave che tutti ci poniamo è: avere vietato il fumo nei locali pubblici ha ridotto la percentuale di italiani tabagisti?

In linea generale sì, anche se non nelle fasce più adulte della popolazione. E si è registrato un calo anche nella media di sigarette fumate ogni giorno. Va precisato che i dati differiscono in base alla fonte utilizzata. In questo caso la scelta è di affidarsi ai numeri di Istat, elaborati da Info Data de Il Sole 24 Ore, che partono dal 2001 e arrivano fino al 2021. I dati evidenziamo che all’inizio del secolo il 23,7% degli italiani aveva il vizio del fumo. Una percentuale che, vent’anni più tardi, si è ridotta al 19%. Dato, quest’ultimo, in aumento rispetto al 18,4% riscontrato prima della pandemia, anche se non è chiaro se sia stato il lockdown a contribuire all’aumento.

Altro aspetto interessante è la riduzione della media di sigarette fumate ogni giorno. Nel 2001 il fumatore medio ne accendeva 14,6 ogni giorno, ovvero tre quarti di un pacchetto. Una cifra che due anni fa è scesa a 11, ovvero poco più di metà pacchetto. I trend cambiano se i dati vengono analizzati per fasce di età. Per esempio, tra chi ha un’età compresa fra i 60 e i 75 anni, la percentuale di fumatori è in aumento: dal 15% del 2001 al 20,5% del 2021. Allo stesso modo, nella fascia tra i 65 ed i 74 anni si è passati da un 13,1% di tabagisti al 15,1%.

In calo patologie asmatiche e coronariche

E gli effetti sulle patologie? Qui ci viene in soccorso uno studio della Società italiana di allergologia, asmologia e immunologia clinica che evidenzia un bilancio positivo.

Sono, infatti, diminuiti del 10-15% gli accessi al pronto soccorso e i ricoveri dei pazienti asmatici, anche tra i più piccoli. “I progressi ottenuti negli ultimi 20 anni rappresentano un importante risultato di salute pubblica”, sottolineano gli esperti della società.

Tra i benefici della legge 3/2003, l’Istituto Superiore di Sanità evidenzia anche la riduzione degli eventi coronarici acuti registrata in Italia tra il 2004 e gli anni successivi all’introduzione della legge, “con valori che vanno dal -4% al -13% dei ricoveri per infarto tra le persone in età lavorativa”. In generale – va ricordato – i dati elaborati e comunicati dal Ministero della Salute nel maggio 2022 dicono che in Italia siano attribuibili al fumo oltre 93.000 morti all’anno (il 20,6% del totale di tutte le morti tra gli uomini e il 7,9% del totale di tutte le morti tra le donne) con costi diretti e indiretti pari a oltre 26 miliardi di euro.

Assidai e la prevenzione primaria

Un Fondo di assistenza sanitaria integrativa come Assidai promuove costantemente, sia nel corso degli eventi che sui propri organi di comunicazione, l’importanza di stili di vita corretti e di un’alimentazione appropriata perché il benessere dei manager e delle loro famiglie è al primo posto.

Il tabacco e l’alcol rappresentano fattori di rischio elevati e contribuiscono in modo importante allo sviluppo di molti tumori, oltre che per le patologie cardiocircolatorie. Ridurre, quindi, al minimo il consumo di alcolici, evitare il fumo, seguire un’alimentazione equilibrata e una dieta varia, che comprenda almeno cinque porzioni di frutta e verdura al giorno, ed effettuare attività fisica (o semplice movimento) con regolarità sono i capisaldi della prevenzione primaria, il principale strumento a nostra disposizione per evitare l’insorgenza di malattie croniche.

Ricordiamo che Assidai è presente sul mercato da oltre 30 anni e nasce nel 1990 da un’intuizione di Federmanager come Fondo sanitario integrativo del Fasi. Nel corso degli anni ha esteso il proprio campo d’azione proteggendo anche coloro che sono iscritti ad altri fondi primari diversi dal Fasi e tutelando non solo i manager delle aziende industriali, ma anche quadri e alte professionalità. Tra i vantaggi sottolineiamo il fatto che gli iscritti possono fruire di un’eccellente rete di strutture sanitarie presente in modo capillare su tutto il territorio nazionale.

Sostanze chimiche, rischi per la salute e per l’apparato riproduttivo

Le sostanze perfluoroalchiliche, i cosiddetti Pfas, possono interferire con la fertilità influenzando la produzione di ormoni e, in sostanza, alterando il sistema riproduttivo attraverso svariati meccanismi, alcuni dei quali insospettabili. Ad affermarlo è un recente studio pubblicato su Cell, autorevole rivista inglese di biologia, e realizzato da un pool di ricercatori del consorzio GeneraLife, gruppo europeo di cliniche specializzate in medicina della riproduzione, in collaborazione con il laboratorio di Biologia dello sviluppo dell’Università di Pavia.

Ma di che materiali stiamo parlando esattamente? In questo caso, per una spiegazione, ci viene in soccorso il sito del Ministero della Salute: Pfos (acido perfluoroottansulfonico) e Pfoa (acido perfluoroottanoico) appartengono alla famiglia delle sostanze organiche perfluoroalchiliche (Pfas), si spiega.

Entrambi sono composti chimici, prodotti dall’uomo e pertanto non presenti naturalmente nell’ambiente, stabili, contenenti lunghe catene di carbonio, per questo impermeabili all’acqua e ai grassi. Grazie alle loro caratteristiche essi vengono utilizzati in prodotti industriali e di consumo per aumentare la resistenza alle alte temperature, ai grassi e all’acqua, di tessuti (in particolare i cosiddetti “prodotti tecnici” utilizzati per fare sport), tappeti ed abbigliamento, rivestimenti di carta ad uso alimentare, di pentole antiaderenti, nonché in schiume antincendio.

Il problema? “Pfoa e Pfos sono composti persistenti, ossia permangono per periodi prolungati nell’ambiente in seguito al rilascio e pertanto alcune ditte hanno previsto l’interruzione della produzione e la sostituzione di Pfoa e Pfos, cambiando i processi di produzione, riducendo il rilascio e il livello di questi composti nei loro prodotti”, sottolinea il Ministero della Salute.

Gli effetti sulla salute: diverse interpretazioni

Detto ciò, a livello medico Pfoa e Pfos sono ritenuti fattori di rischio per un’ampia gamma di patologie, anche se la questione è ancora oggi oggetto di approfonditi studi. Sicuramente, come detto, agiscono come interferenti endocrini, in grado cioè di alterare la sintesi di ormoni, compromettendo la crescita e riducendo la fertilità. Inoltre, i Pfas sono sospettati di interferire nella comunicazione intercellulare, aumentando così il rischio di sviluppare tumori.

Tra le malattie la cui causa potrebbe essere attribuita all’esposizione prolungata a queste sostanze, vi sono tumori ai reni e ai testicoli, ma anche disfunzionalità della tiroide, ipertensione in gravidanza e colite ulcerosa. Inoltre, alcuni studi suggeriscono un incremento delle patologie fetali e gestazionali nelle aree più esposte alla contaminazione.

Sull’argomento, il Ministero della Salute fa notare che gli studi sull’uomo hanno fornito risultati non coerenti sulle possibili relazioni tra i livelli di Pfoa e Pfos nel sangue e gli effetti avversi sulla salute e la loro interpretazione è resa ancora più difficile dalla presenza di fattori confondenti presenti nella popolazione generale (ad esempio, gli stili di vita). Tuttavia, “gli studi disponibili suggeriscono che un maggiore livello ematico di Pfoa e Pfos possa essere associato ad un aumento di livelli di colesterolo nel sangue, di acido urico e ad un aumentato rischio di pressione alta. Il principale organo bersaglio sembra essere il fegato anche in studi effettuati sugli animali”.

Pur essendo disponibili numerosi studi su diverse specie animali, l’estrapolazione di tali dati dall’uomo è particolarmente difficile per le significative differenze nel destino di tali sostanze all’interno dell’organismo e nel modo in cui queste provocano tossicità. Sebbene alcune ricerche abbiano suggerito una possibile correlazione con tumori testicolari e renali, a causa di incongruenze osservate, non è stato possibile concludere in modo definitivo circa il legame tra l’esposizione a Pfoa e Pfos e il cancro nell’uomo, continua il Ministero della Salute.

Gli effetti riscontrati sono stati interpretati con cautela in quanto non costantemente evidenziati, sia su lavoratori che sulla popolazione generale rispettivamente esposti a livelli elevati o più bassi di questi composti, non considerando altri potenziali fattori di rischio, quali il fumo. Diversamente, gli studi sugli animali hanno evidenziato un aumento di alcuni tipi di tumori a carico del fegato, testicolo, e tiroide.

Le conseguenze sull’apparato riproduttivo

Riguardo i Pfas, va ricordata un’altra analisi svolta due anni fa dall’Università di Padova, pubblicata sul Journal of Endocrinological Investigation, condotta su 120 ventenni nati e residenti nelle zone esposte all’inquinamento da Pfas, dimostrando una significativa alterazione del numero e della motilità degli spermatozoi. I risultati sono stati recentemente confermati da una ricerca danese, eseguita su giovani esposti a queste sostanze durante la gravidanza. Gli esperti, in questo caso, hanno raccolto campioni di sangue da oltre mille donne nel primo trimestre di gravidanza e hanno controllato le caratteristiche dello sperma di oltre 800 figli di quelle donne a 18 anni di distanza, dimostrando una relazione lineare tra le concentrazioni di Pfas delle madri e la scarsa motilità e la bassa conta degli spermatozoi.

Al proposito, il nuovo studio condotto dall’Università di Padova riporta che il Pfoa è presente anche nel liquido seminale dei giovani esposti, a concentrazioni di circa il 30% di quelle plasmatiche e dimostra la specifica interazione tra queste sostanze chimiche e i fosfolipidi di membrana, principali costituenti della membrana stessa. Cosa determina tutto ciò? Modifica la fluidità della membrana e interferisce con recettori e canali presenti sulla stessa, la cui attivazione è fondamentale per lo sviluppo del processo di fertilizzazione.

Assidai e la prevenzione primaria: il valore dell’informazione

Per quanto si tratti di concetti certamente complessi e per quanto le conclusioni degli studi empirici svolti sugli effetti dei Pfas non siano ancora completamente coerenti, quello di cui ci siamo occupati è un argomento di forte attualità e riguarda la nostra vita di tutti i giorni, visto che questi composti chimici possono essere presenti nelle pentole antiaderenti o nei tessuti tecnici.

Per questo, essere a conoscenza dei potenziali rischi di alcuni prodotti può essere considerato parte integrante del concetto di prevenzione primaria: Assidai – che si era già occupato di questi temi – la considera centrale per difendersi dalle cronicità, ovvero malattie cardiocircolatorie, tumori e diabete in primis. Laddove, ovviamente, per prevenzione primaria si intendono anche e soprattutto una serie di comportamenti da adottare nella vita di tutti i giorni per “trattare bene” il nostro corpo. Dunque, un’alimentazione equilibrata con le giuste dosi di frutta e verdura, lo stop a qualsiasi uso di tabacco, consumo moderato di alcol e praticare attività fisica, anche modesta, almeno due o tre volte a settimana.