Melanoma del cuoio capelluto, ecco il pericolo nascosto

Una macchietta nera o più spesso di colore rosso o rosa nascosta tra i capelli non va sottovalutata. Nonostante testa e collo rappresentino solo il 9% della superficie del corpo, arrivano a ospitare infatti tra il 20% e il 30% dei casi di melanoma, un tumore della pelle molto aggressivo. Se in chi ha pochi capelli c’è una chance in più di individuarlo all’esordio, quando il melanoma è sul cuoio capelluto la prognosi è più spesso nefasta, proprio perché più difficile da individuare.

A tal proposito le statistiche parlano chiaro. Il melanoma deriva dai melanociti, le cellule del pigmento della pelle, e può diffondersi rapidamente (metastatizzare) attraverso i linfonodi o il flusso sanguigno se non viene rilevato in una fase precoce. I melanomi del cuoio capelluto sono più letali di altri melanomi. Uno studio del 2014 – sottolinea The Skin Center Foundation – ha rilevato che questo tipo di melanomi hanno un’incidenza molto più elevata di diffusione al cervello (12,7% entro cinque anni dalla diagnosi) rispetto a quelli in altre parti della testa e del collo (6,7%) o del tronco o degli arti (4,7%).

Melanoma del cuoio capelluto: perché è il più pericoloso

Perché i melanomi del cuoio capelluto sono più letali? Uno dei motivi potrebbe benissimo essere – come detto – un ritardo nella diagnosi a causa della loro posizione, in un’area solitamente nascosta dai capelli, dove non è possibile vederli senza uno sforzo (ecco perché negli anni scorsi era stata lanciata una battaglia per coinvolgere i parrucchieri e invitarli a richiamare l’attenzione dei clienti nel caso di nei o macchie sospette). Del resto, la biologia del melanoma stesso o l’ambiente del cuoio capelluto possono svolgere un ruolo. Poi c’è un altro tema, da non sottovalutare: il cuoio capelluto è ben vascolarizzato con numerosi vasi sanguigni e il drenaggio linfatico è vario e complesso, motivo per cui i melanomi in questa sede sono più aggressivi e possono diffondersi più facilmente al cervello. Uno studio del 2015 ha mostrato che i melanomi sulla testa e sul collo hanno un tasso mitotico (tasso di crescita) più veloce rispetto ai melanomi in altre parti del corpo.

A tutto ciò vanno aggiunti dei dati statistici non certo irrilevanti: il melanoma del cuoio capelluto colpisce sei volte più frequentemente gli uomini rispetto alle donne ed è più comune tra gli anziani rispetto ai giovani. In media viene diagnosticato intorno ai 65 anni, ovvero circa un decennio più tardi rispetto ai pazienti con melanoma localizzato sul tronco o sugli arti.

Il melanoma, cos’è e come riconoscerlo

Più in generale che cosa è il melanoma? Sul tema abbiamo avuto l’onore di intervistare lo scorso anno uno dei più grandi esperti mondiali, il Prof. Paolo Ascierto, e in passato un luminare come il Prof. Nicola Mozzillo, sempre esponenti di spicco dell’Istituto Nazionale Tumori IRCCS Fondazione G. Pascale di Napoli, e sappiamo che tra tutti i tipi di tumori della pelle, è quello meno diffuso ma anche il più pericoloso perché può crescere velocemente e invadere anche i tessuti circostanti, ricorda anche la Fondazione Umberto Veronesi. Il melanoma è visibile a occhio nudo e ha origine da un neo-preesistente che cambia forma o colore oppure dalla comparsa di un nuovo neo sulla cute integra. Si tratta di una neoplasia sempre maligna. Non è infatti mai possibile definire un melanoma benigno, tutt’al più si può parlare di un neo-benigno che non presenta le caratteristiche di un melanoma.

I nei appaiono come macchie scure e non sono altro che agglomerati di melanociti, le cellule dello strato più superficiale della cute (l’epidermide) che producono e accumulano melanina, il pigmento responsabile della colorazione naturale della pelle, degli occhi e dei capelli con il compito di proteggerci dagli effetti dannosi dei raggi solari. Il melanoma può insorgere più raramente anche in altre aree corporee, come l’occhio, le mucose di bocca e genitali.

I suoi principali sintomi? Le formazioni precancerose del melanoma non danno sintomi, ma possono essere individuate con un attento controllo dei nei presenti sulla pelle. Un metodo utile, e facile da ricordare, per riconoscere un neo-sospetto è la sigla ABCD che ne elenca le caratteristiche: A come asimmetria della forma, B come bordi irregolari, C come colore variabile, D come dimensioni in aumento sia in larghezza che in spessore. In genere i nei congeniti, cioè sulla nostra pelle sin dalla nascita, sono tondeggianti, hanno un colore uniforme e non subiscono trasformazioni nel tempo.

Oltre al cambiamento di aspetto, possono essere segnali di melanoma anche sanguinamento, prurito o secchezza di un neo-preesistente. Un nuovo neo può insorgere in qualsiasi area del corpo, senza che ce ne accorgiamo: la diagnosi precoce di melanoma non è semplice, è bene quindi sottoporsi a controlli periodici dal dermatologo e attuare le corrette strategie di prevenzione. Nel giro dei prossimi anni potrebbe essere disponibile un vaccino che potrebbe effettivamente rappresentare uno strumento cruciale nella lotta contro il melanoma a livello mondiale.

Assidai e la prevenzione

Proprio la prevenzione è uno dei punti fermi della strategia e della filosofia di Assidai. Anche per questo, negli anni scorsi, il fondo aveva lanciato un’importante iniziativa sul tema, identificando giugno 2019 come il mese della prevenzione del melanoma. Le persone iscritte ad Assidai avevano così potuto usufruire – gratuitamente – del pacchetto Healthy Manager, che prevedeva una visita dermatologica e la mappatura dei nei, esami fondamentali in termini di prevenzione per evidenziare eventuali patologie o lesioni tumorali della pelle. Parliamo di esami non invasivi e che non provocano alcun dolore ma che possono fare la differenza per scoprire in anticipo qualsiasi cambiamento sulla nostra pelle, un organo spesso sottovalutato ma di importanza cruciale per il nostro benessere, da proteggere e preservare con molta attenzione, soprattutto d’estate.

Giornata Mondiale del Donatore di Sangue per donare la vita

La Giornata Mondiale del Donatore di Sangue si celebra in tutto il mondo il 14 giugno, giorno della nascita di Karl Landsteiner, scopritore dei gruppi sanguigni e co-scopritore del fattore Rh. Istituito nel 2005 dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, questo appuntamento nasce per sensibilizzare sull’importanza che i donatori di sangue, volontari, periodici, non retribuiti, rivestono per coloro che necessitano di trasfusioni sicure. Una ricorrenza fondamentale per fare il punto sui dati della donazione di sangue in Italia e per ricordare che, con un piccolo gesto, possiamo salvare tanti pazienti in difficoltà. Parliamo di 1800 persone ogni giorno. Per l’occasione è tornata anche per il secondo anno consecutivo “Dona vita, dona sangue”, la campagna per la donazione di sangue e plasma, promossa dal Ministero della Salute, in collaborazione con il Centro Nazionale Sangue e le principali Associazioni e Federazioni di donatori italiane (AVIS, Croce Rossa Italiana, FIDAS, FRATRES e DonatoriNati). 

Nel 2023 in Italia aumentano i donatori

Le buone notizie, quest’anno, partono dai numeri. Nel 2023, secondo i dati elaborati dal Centro Nazionale Sangue, è infatti tornato a crescere il numero dei donatori giovani. Per la prima volta da almeno dieci anni, i donatori compresi nella fascia d’età tra i 18 e i 45 anni sono aumentati di circa 7mila unità rispetto all’anno precedente. Un risultato sicuramente positivo che tuttavia rientra in una tendenza ultradecennale all’invecchiamento della popolazione dei donatori: un trend confermato dal confronto con gli anni precedenti. Nel 2023 i donatori tra 18 e 45 anni hanno rappresentato infatti il 50,7% del totale contro il 55% del 2018 solo 5 anni prima, nel 2018, tale percentuale era del 55%. A livello generale il 2023 ha segnato una lieve crescita nel numero totale dei donatori di sangue, che sono aumentati di 20mila unità rispetto al 2022. Segno più anche per il numero delle donazioni (+36mila rispetto al 2022), aumento che ha permesso di superare la soglia dei 3 milioni di donazioni in un anno. Si conferma così l’importanza della generosità della popolazione italiana dei donatori che ha garantito anche quest’anno l’autosufficienza del paese in materia di globuli rossi e la possibilità di effettuare circa 2 milioni e 837mila trasfusioni ad una media di 1.748 pazienti al giorno.  

Il ministro Schillaci: “Un gesto semplice, un impatto fortissimo” 

“Rinnoviamo anche quest’anno la campagna ‘Dona vita, dona sangue’. Dopo gli ottimi risultati dello scorso anno – ha detto il Ministro della Salute, Orazio Schillaci – nel 2023 sono aumentate le donazioni anche tra i giovani, nessuna Regione ha registrato carenza di sangue durante l’estate ed è cresciuta anche la raccolta di plasma. Sono dati che dimostrano l’importanza e la buona riuscita di queste campagne. Donare il sangue è un gesto semplice ma con un impatto fortissimo e continuiamo a incoraggiare i giovani perché c’è bisogno di un ricambio generazionale dei donatori. In questi mesi abbiamo promosso la donazione del sangue nel corso di importanti eventi sportivi nazionali e internazionali, oggi ripartiamo con un nuovo spot e attività in tutta Italia per far crescere anche nel 2024 le donazioni di sangue e plasma”. 

Come donare: ecco la procedura 

Come donare il sangue? Per farlo – si legge sul sito del Ministero della Salute – si può andare in uno dei 278 servizi trasfusionali o nei punti di raccolta ospedalieri di tutta Italia o in una delle circa 1.300 unità di raccolta allestite da un’associazione di volontari (le principali sono AVIS, Croce Rossa, Fidas e Fratres). In alternativa è comunque possibile donare il sangue in una unità mobile, le cosiddette autoemoteche, accreditate e autorizzate dalle competenti autorità regionali. 

Anche se non tutti lo richiedono, è sempre utile contattare prima la struttura e prenotare una donazione. In questo modo si potranno evitare file e lunghe attese, facilitando anche il lavoro del personale impegnato nel percorso della donazione. L’aspirante donatore, munito di un documento di identità valido, arrivato al servizio trasfusionale o all’unità di raccolta, dovrà compilare un questionario che servirà al medico selezionatore per individuare eventuali motivi di sospensione temporanea o di esclusione dalla donazione. A seguito della compilazione del questionario ci sarà un colloquio conoscitivo con il medico e, se superato, all’aspirante donatore vengono prelevati dei campioni di sangue per effettuare dei test che servono a garantire che il sangue raccolto sia sicuro e adatto per una futura trasfusione. Sui campioni di sangue vengono effettuati i seguenti esami: test HIV, epatite B, epatite C e sifilide, emocromo completo, determinazione del gruppo sanguigno e del livello di emoglobina nel sangue.  

A seconda delle politiche adottate dalla struttura scelta, il donatore, superata la selezione, procederà con una donazione immediata oppure potrà tornare a casa e sarà convocato in un secondo momento dal servizio trasfusionale o dall’unità di raccolta (donazione differita). La procedura più comune è la donazione di sangue intero: la si può fare ogni tre mesi per i maschi e le donne non in età fertile, due volte l’anno per le donne in età fertile e la procedura dura 15 minuti. Una volta raccolta una sacca, pari a 450 ml, il sangue viene scomposto nelle sue tre componenti principali (globuli rossi, plasma, piastrine), che poi verranno utilizzate separatamente. 

I requisiti per donare il sangue 

Chi può donare il sangue e quali sono i requisiti richiesti? Anche in questo caso ci viene in soccorso il sito del Ministero della Salute. La donazione di sangue è aperta a tutti i cittadini italiani e stranieri che dispongano di un documento di identità valido (alcune strutture, a seconda dei sistemi informatici adottati, potrebbero richiedere anche una tessera sanitaria). 

I requisiti fisici richiesti sono: età compresa tra i 18 e i 65 anni (la donazione di sangue intero da parte di donatori periodici di età superiore ai 65 anni fino a 70 può essere consentita previa valutazione clinica dei principali fattori di rischio correlati all’età), peso corporeo minimo di 50 chilogrammi e buono stato di salute. 

Prima di poter donare il medico dovrà verificare che vi siano altre condizioni necessarie per la donazione. Ovvero pressione arteriosa sistolica inferiore o uguale a 180 mmHg e diastolica inferiore o uguale a 100 mmHg; frequenza cardiaca regolare, compresa tra 50 e 100 battiti al minuto; livelli di emoglobina uguali o superiori a 13,5 g/dL nell’uomo e uguali o superiori a 12,5 g/dL nella donna. 

Infine, in caso di malattie presenti o passate bisogna avvertire sempre il medico selezionatore e, in caso, se e quali farmaci si assumono regolarmente come terapia. A seconda delle patologie (presenti, passate o croniche) esistono infatti dei protocolli che prevedono la possibilità di donare, ma anche l’eventuale esclusione permanente o la sospensione temporanea dalla donazione. 

A chi si può donare il sangue?

Infine, a chi si può donare il sangue: la compatibilità dei gruppi sanguigni è fondamentale. Il sistema immunitario reagisce infatti alla presenza di sangue che non riconosce come proprio mediante la produzione di anticorpi che possono legarsi a particolari antigeni. Questa reazione può causare l’agglutinazione dei globuli rossi e la loro distruzione.  

Al proposito è utile ricordare sempre questo specchietto: 

Il gruppo A può ricevere sangue dal gruppo A e dal gruppo 0. 

Il gruppo B può ricevere sangue dal gruppo B e dal gruppo 0. 

Il gruppo AB può ricevere sangue dal gruppo A, dal gruppo B, dal gruppo AB e dal gruppo 0. 

Il gruppo 0 può ricevere solo dal gruppo 0. 

I pazienti con sangue Rh+ possono ricevere sangue Rh+ e Rh-. 

I pazienti con sangue Rh- possono ricevere solo sangue Rh-. 

Tumori maschili: allarme globale sul raddoppio dei casi del cancro alla prostata

Dati allarmanti quelli che emergono da un recente rapporto pubblicato su “The Lancet”, importante rivista scientifica inglese: entro il 2040 i casi annui di tumore alla prostata nel mondo raddoppieranno passando dagli attuali 1,4 milioni a 2,9 milioni e gli aumenti più importanti si registreranno nei Paesi meno sviluppati. Il rapporto sottolinea la necessità “di mettere a punto strategie per gestire questo fenomeno” e fornisce raccomandazioni per mitigare l’impatto della neoplasia.

I numeri dei tumori e i fattori di rischio

Il tumore alla prostata – ricorda “The Lancet” – è già una delle principali cause di morte e disabilità, rappresentando il 15% di tutti i tumori maschili. È la seconda causa di decessi per cancro negli uomini del Regno Unito e la forma più comune di tumore maschile in più della metà dei Paesi del mondo. L’invecchiamento della popolazione e l’aumento dell’aspettativa di vita porteranno inevitabilmente a un aumento del numero di uomini anziani nei prossimi anni. Inoltre, secondo la rivista britannica, poiché i principali fattori di rischio per il cancro alla prostata sono l’età pari o superiore ai 50 anni e una storia familiare della malattia, l’incremento del numero di malati salirà inevitabilmente con un trend che sarà molto difficile contrastare. In realtà – come sottolineato dagli esperti e periodicamente da Assidai, il Fondo di assistenza sanitaria integrativa di emanazione Federmanager, nel costante lavoro di informazione sui propri media verso tutti gli stakeholder – su tutte le cronicità, tumori compresi, gioca un ruolo rilevante la cosiddetta prevenzione primaria. Ovvero la riduzione al minimo dei fattori di rischio legati allo stile di vita. In quest’ottica una dieta ricca di grassi saturi, l’obesità, la mancanza di esercizio fisico, il fumo e l’alcol sono solo alcune delle caratteristiche e delle abitudini poco salubri, sempre più diffuse nel mondo occidentale, che possono favorire lo sviluppo e la crescita dei tumori.

Il test del PSA

Il numero di diagnosi di tumore della prostata è aumentato progressivamente da quando, negli anni Novanta, l’esame per la misurazione del PSA (Antigene Prostatico Specifico – test importante per valutare la presenza o meno di eventuali patologie alla prostata) è stato approvato dalla Food and Drug Administration (FDA) americana. Sul suo reale valore ai fini della diagnosi di un tumore, però, – sottolinea l’Airc, Fondazione per la ricerca sul cancro – il dibattito è aperto in quanto spesso i valori sono alterati per la presenza di una iperplasia benigna o di una infezione. Per questa ragione negli ultimi anni si è osservata una riduzione dell’uso di tale test. In particolare, la misurazione sierica del PSA va valutata attentamente in base all’età del paziente, la familiarità, l’esposizione a eventuali fattori di rischio e la storia clinica. La PSA altro non è che una proteina sintetizzata dalle cellule della prostata, che – se presente in valori fuori dall’ordinario – indica una problematica alla prostata stessa.

Trend crescente anche in Italia

Anche in Italia il tumore della prostata sta mostrando un trend di forte crescita. I dati più aggiornati, cioè relativi al 2023, dicono che questo cancro ha colpito l’anno scorso 41.100 uomini. Si registra un incremento di nuovi casi l’anno nell’ultimo triennio del 14%. Erano infatti “solo” 36mila nel 2020. La buona notizia è che più del 60% dei pazienti riesce a sconfiggere definitivamente il carcinoma. Numeri importanti e che evidenziano come l’innovazione sia riuscita a garantire trattamenti efficaci per tutti i malati, anche quelli interessati dalle forme più gravi del tumore. Certo, molto dipende dallo stadio in cui viene identificata la malattia. E, in questo caso, va ricordata ancora una volta l’importanza – dopo una certa età – di sottoporsi a screening e visite specialistiche periodiche: senza eccedere ma rispettando la cadenza consigliata dagli esperti.

 Screening, le nuove raccomandazioni della Ue sui tumori

Sul proprio sito il Ministero della Salute ricorda che le nuove raccomandazioni del Consiglio Europeo sugli screening oncologici raccomandano per il carcinoma della prostata, che i Paesi membri adottino un approccio graduale avviando sperimentazioni e progetti pilota mirati a valutare la fattibilità dell’attuazione di programmi organizzati di screening attraverso l’analisi del PSA per gli uomini fino a 70 anni, in combinazione con un Imaging a Risonanza Magnetica (MRI) come test di follow-up, e a reindirizzare le attività di screening opportunistico. “Al momento, in Italia nel nostro Paese l’analisi del PSA è diffusamente utilizzata nell’ambito di un’offerta opportunistica, anche in fasce di età anziane, ma lo screening per il tumore della prostata non rientra tra quelli organizzati dal Sistema Sanitario Nazionale”, conclude il Ministero della Salute.

Assidai: ottenuta la certificazione per la parità di genere UNI PdR 125:2022

Un progetto impegnativo quello della certificazione della parità di genere UNI PdR 125:2022 Prassi di riferimento per la parità di genere, che ha coinvolto attivamente il Fondo per certificarsi per il seguente campo di applicazione “Misure per garantire la parità di genere nel contesto lavorativo per: Erogazione del servizio di rimborsi spese mediche ed assistenziali per dirigenti, quadri e consulenti”.

L’iniziativa, nata come progetto di tutto il Sistema Federmanager, ha visto oltre ad Assidai il coinvolgimento di Federmanager, Federmanager Academy, Manager Solutions e Praesidium: un traguardo collettivo che evidenzia l’impegno concreto nell’affrontare le sfide legate alla valorizzazione della diversità di genere, a partire dalla promozione di modelli di leadership inclusivi.

Ma che cosa rappresenta realmente questa certificazione per Assidai? Un riconoscimento ufficiale che attesta l’impegno del Fondo verso l’uguaglianza di genere e la promozione della diversità sul luogo di lavoro creando ambienti di lavoro inclusivi, equi e rispettosi, in cui donne e uomini possano beneficiare di pari opportunità di sviluppo e crescita professionale. Inoltre, non solo risponde a principi etici fondamentali ma offre anche vantaggi tangibili all’organizzazione stessa: la certificazione, infatti, favorisce un miglioramento reale della cultura organizzativa, contribuisce alla crescita dell’organizzazione e promuove soluzioni innovative che incrementano la produttività complessiva nel medio-lungo termine.

In termini di governance la certificazione UNI PdR 125:2022 rappresenta per Assidai un ulteriore tassello che si aggiunge alla certificazione del sistema di gestione ISO 9001:2015, alla certificazione volontaria del proprio bilancio e all’iscrizione all’Anagrafe dei fondi sanitari istituita dal Ministero della Salute. L’obiettivo cui tende il Fondo dotandosi di certificazioni – seppur non richieste – è quello di continuare ad apportare significative migliorie all’interno della propria realtà e con quest’ultima attestazione è previsto un piano strategico triennale di sviluppo che vedrà il Fondo impegnato nell’implementazione di ulteriori processi innovativi e in specifici corsi di formazione per le proprie risorse.

Va detto che è ancora più importante questo step – effettuato volontariamente da Assidai e per primo rispetto ad altri fondi sanitari – perché secondo l’ultimo Rapporto globale sulla disparità di genere 2023 del World Economic Forum (WEF), il ritmo del cambiamento in termini di gender gap è stagnante a causa delle crisi convergenti che rallentano i progressi. Il Rapporto, giunto alla diciassettesima edizione, analizza l’evoluzione delle disparità basate sul genere in quattro aree: a) partecipazione economica e opportunità, b) risultati scolastici, c) salute e sopravvivenza e d) emancipazione politica, e rileva che il divario complessivo tra i sessi si è ridotto solo dello 0,3% rispetto al Rapporto 2022 e la parità è progredita solo del 4,1% dalla prima edizione del rapporto nel 2006, con un rallentamento significativo del tasso di variazione complessivo.

Per colmare il divario complessivo tra i sessi occorreranno ben 131 anni ma, al ritmo attuale, ci vorranno 169 anni per la parità economica e 162 anni per quella politica.  Analizzando i 146 Paesi indicizzati, per il 14° anno consecutivo, l’Islanda si conferma il primo Paese al mondo per uguaglianza di genere e l’unico ad aver colmato oltre il 90% del divario di genere. Sebbene nessun Paese abbia ancora raggiunto la piena parità di genere, i primi nove classificati hanno colmato almeno l’80% del loro divario (Norvegia, Finlandia, Nuova Zelanda, Svezia, Germania, Nicaragua, Namibia, Lituania e Belgio). L’Italia invece scivola dal 63esimo al 79esimo posto e a pesare sul posizionamento del nostro Paese nella classifica vi è il netto peggioramento registrato in ambito di partecipazione e rappresentanza politica delle donne. Se, poi, si prende in considerazione lo spaccato della partecipazione e delle opportunità economiche che le donne hanno nel nostro Paese si ha un lieve miglioramento dal 110° posto al 104°. Certo un dato, comunque, sconfortante nonostante il miglioramento, perché ci collochiamo nella parte bassa della classifica. Resta pressoché invariata la collocazione dell’Italia nel ranking relativo all’accesso all’educazione (siamo passati dal 59° posto al 60°), mentre è in miglioramento (seppure sempre nella parte bassa della classifica) il posizionamento nel segmento salute e prospettive di vita (dal 108° al 95°).

«La Certificazione appena ottenuta è per noi un importante traguardo, che si inserisce nel solco dell’attenzione posta alle tematiche di parità di genere dal nostro Fondo di assistenza sanitaria, già all’interno del proprio processo di gestione certificato da molti anni” – ha dichiarato Armando Indennimeo, Presidente Assidai –  Le persone sono un asset unico all’interno delle organizzazioni, per questo ritengo fondamentale garantire un alto livello di benessere alle donne e agli uomini, che, ogni giorno, con dedizione e impegno, consentono ad Assidai di raggiungere la propria mission, così come è altrettanto importante il work-life-balance perché un buon equilibrio tra vita privata e vita lavorativa è un altro elemento centrale per la filosofia del Fondo».

Il lavoro propedeutico al processo di certificazione è stato realizzato dal Fondo con il supporto di Ambire Società Benefit e tutto il processo è stato certificato da GCerti Italy. I KPI qualitativi e quantitativi analizzati – relativamente alla fascia e al cluster in cui è stato inserito Assidai – sono: 1) Cultura e strategia 2) Governance 3) Processi HR 4) Opportunità di crescita e inclusione delle donne in azienda 5) Equità remunerativa per genere 6) Tutela della genitorialità e conciliazione vita-lavoro.

I documenti analizzati e prodotti da Assidai per raggiungere questo importante obiettivo della Certificazione sono stati numerosi. Tra essi sono ricordiamo in primo luogo la Politica di parità di genere rivolta a tutto il personale dipendente e condivisa con tutti gli stakeholder per evidenziare l’impegno costante e crescente da parte del Fondo per garantire un ambiente di lavoro con pari opportunità di genere. In secondo luogo, la Politica anti Politica anti-molestie e anti-discriminazioni sviluppata per sottolineare l’impegno del Fondo di Assistenza Sanitaria Integrativa nel sostenere un ambiente di lavoro privo di qualsiasi forma di molestia, violenza, discriminazione diretta e indiretta e per ribadire il divieto circa qualsiasi atto di cui sopra che leda la dignità umana e comprometta la fiducia, la motivazione, le prestazioni, il clima organizzativo e la reputazione di Assidai.

Per scaricare il documento di certificazione clicca qui

Assidai riceve la certificazione di parità di genere UNI PdR 125:2022

Da sinistra: Mario Cardoni, Direttore Generale Federmanager; Marilena Albanese, Responsabile Marketing e Comunicazione Assidai; Armando Indennimeo, Presidente Assidai; Marco Rossetti, Direttore Generale Assidai; Marina Cima, Presidente Manager Solutions; Alessandra Ceccarelli, Responsabile Organizzazione e Sviluppo Federmanager; Valter Quercioli, Vice Presidente Federmanager; Dina Galano, Responsabile Comunicazione Federmanager

Oms, al via un piano da 11 miliardi per la salute globale

Svolta storica a Ginevra, dove le delegate e i delegati dell’assemblea mondiale della Sanità, di fatto l’organo decisionale dell’Oms (Organizzazione mondiale della sanità), hanno approvato una strategia quadriennale da 11,1 miliardi di dollari per la salute globale volta a promuovere la salute e il benessere con particolare attenzione al cambiamento climatico, l’invecchiamento, la migrazione, le minacce pandemiche e l’equità, anche considerando l’attuale, rapida evoluzione della scienza e della tecnologia. Questo appuntamento, va ricordato, era particolarmente atteso perché vedeva la partecipazione dei ministri della Sanità e di altri rappresentanti nazionali di alto livello, e perché la piattaforma funge da piattaforma fondamentale per affrontare le attuali sfide sanitarie globali come l’Hiv, il morbillo e la poliomielite, nel contesto dell’emergenza climatica, le cui conseguenze sono sempre più tangibili, oltre all’aumento di patologie come l’ipertensione e l’obesità. Assidai, nell’attività dii informazione costante a tutti gli stakeholder e alle persone iscritte al Fondo di assistenza sanitaria, ha sempre sottolineato il forte peso delle malattie croniche sullo stato di salute della popolazione globale e, di conseguenza, il ruolo cruciale della prevenzione primaria.   

Il nuovo maxi piano per la salute: sei obiettivi strategici 

Vediamo, dunque, cosa prevede il Quattordicesimo Programma Generale di Lavoro, che copre il periodo 2025-2028 e ha sei obiettivi strategici: rispondere alla crescente minaccia alla salute posta dai cambiamenti climatici; affrontare i determinanti della salute e le cause profonde della cattiva salute nelle politiche chiave in tutti i settori; promuovere l’assistenza sanitaria primaria e le capacità dei sistemi sanitari per garantire una copertura sanitaria universale; migliorare la copertura dei servizi sanitari e la protezione finanziaria per affrontare le disuguaglianze; prevenire, mitigare e prepararsi ai rischi per la salute derivanti da tutti i pericoli; individuare e sostenere rapidamente la risposta alle emergenze sanitarie. 

“Gli effetti cumulativi del cambiamento climatico, delle epidemie e dei conflitti comportano una pressione sempre maggiore sull’Oms affinché risponda ai bisogni sanitari del mondo – ha riassunto Tedros Adhanom Ghebreyesus, Direttore generale dell’Oms -. Questa Assemblea sanitaria offre ai nostri Stati membri un’opportunità chiave per promuovere, fornire e proteggere la salute e il benessere di tutti, adottando il Quattordicesimo Programma Generale di Lavoro, la strategia sanitaria globale per i prossimi quattro anni; sostenendo la continua trasformazione dell’Oms attraverso il round di investimenti dell’Oms; e rendendo il mondo più sicuro attraverso l’Accordo sulla pandemia e gli emendamenti al Regolamento sanitario internazionale”. 

L’Oms e il suo ruolo per la sanità globale 

Per capire la portata di tutto ciò va ricordato che l’Organizzazione Mondiale della Sanità, istituita nel 1948 con sede a Ginevra, è l’Agenzia delle Nazioni Unite specializzata per le questioni sanitarie e vi aderiscono 194 Stati Membri di tutto il mondo divisi in sei regioni (Europa, Americhe, Africa, Mediterraneo Orientale, Pacifico Occidentale e Sud-Est Asiatico). L’Italia ha aderito ufficialmente all’Oms l’11 aprile 1947. Secondo la Costituzione dell’OMS, – come si legge sul sito del Ministero della Salute – l’obiettivo dell’Organizzazione è “il raggiungimento, da parte di tutte le popolazioni, del più alto livello possibile di salute“, definita come “uno stato di totale benessere fisico, mentale e sociale” e non semplicemente “assenza di malattie o infermità”. Per questo, l’Oms è l’organismo di indirizzo e coordinamento in materia di salute all’interno del sistema delle Nazioni Unite. Tra le altre funzioni, è impegnata a fornire una guida sulle questioni sanitarie globali, indirizzare la ricerca sanitaria, stabilire norme e standard e formulare scelte di politica sanitaria basate sull’evidenza scientifica; inoltre, garantisce assistenza tecnica agli Stati Membri, monitora e valuta le tendenze in ambito sanitario, finanzia la ricerca medica e fornisce aiuti di emergenza in caso di calamità. Attraverso i propri programmi, l’Oms lavora anche per migliorare in tutto il mondo la nutrizione, le condizioni abitative, l’igiene e le condizioni di lavoro 

Come è evidente – ed è questo anche il motivo che ha spinto ad adottare una nuova strategia quadriennale da oltre 11 miliardi – l’Oms si trova oggi a operare in un contesto sempre più complesso e in rapido cambiamento, in cui i confini d’azione della sanità pubblica sono diventati più fluidi, estendendosi ad altri settori, che hanno un impatto sulle prospettive e sui risultati in ambito sanitario. La risposta dell’Oms a queste sfide è articolata proprio nel nuovo Programma generale di Lavoro, che rappresenta la strategia dell’Organizzazione e l’agenda di quest’ultima sulla salute globale, identificandone le priorità di lavoro.  

Si accelera sul vaccino anti-tubercolosi 

Altra decisione chiave dell’Oms è stata la convocazione della seconda riunione di alto livello del Consiglio dell’acceleratore del vaccino contro la tubercolosi. È stato infatti raggiunto un accordo su tre percorsi chiave per guidare il lavoro nei prossimi due anni, con l’obiettivo di accelerare lo sviluppo, l’approvazione, l’accesso e la distribuzione di nuovi vaccini contro la tubercolosi. Questi includono: potenziare la diversificazione del portafoglio di vaccini; accelerare l’identificazione di soluzioni di mercato incentivando lo sviluppo in fase avanzata di nuovi vaccini contro la tubercolosi lanciando un meccanismo di incentivi; favorire la rapida implementazione e adozione di nuovi vaccini contro la tubercolosi promuovendo e finanziando un programma di apprendimento completo per sostenere la preparazione, semplificare i processi normativi e facilitare l’accesso globale. 

Settimana mondiale della tiroide, prevenzione ma senza eccessi

Più informazione, meno esami inutili. È questo il tema scelto per la Settimana Mondiale della Tiroide, che quest’anno si è tenuta dal 20 al 24 maggio con l’obiettivo di sensibilizzare la popolazione sulle malattie tiroidee croniche. Del resto, in Italia sono 6 milioni i cittadini con problemi alla tiroide, a cui si associa una prevalenza di patologie non gravi e quasi sempre curabili. La tiroide è una ghiandola piccola, ma molto importante perché esercita funzioni critiche durante tutto l’arco della vita. Gli ormoni prodotti dalla tiroide regolano infatti l’accrescimento e lo sviluppo del sistema nervoso nel bambino e, nel corso di tutta la nostra vita, agiscono sui sistemi cardiovascolare e osseo, sul metabolismo lipidico, glucidico e sul mantenimento dell’omeostasi energetica. Una riduzione (ipotiroidismo) o un eccesso (ipertiroidismo) del funzionamento della tiroide alterano tutti questi processi e richiedono l’intervento dello specialista.

Il valore della prevenzione (senza eccessi)

La Settimana Mondiale della Tiroide è patrocinata dall’Istituto Superiore di Sanità e, come detto, ha l’obiettivo di sensibilizzare il Paese, anche sul fronte della prevenzione. Il valore di quest’ultima, a livello generale, è sempre stato sottolineato da Assidai come doppia arma dal punto di vista sanitario (diagnosticare in tempo determinate malattie dà maggiori possibilità di sconfiggerle) e finanziario, poiché permette di evitare ingenti spese al Sistema Sanitario Nazionale. Nello specifico della tiroide l’Osservatorio nazionale per il monitoraggio della iodoprofilassi in Italia (Osnami) dell’Istituto Superiore di Sanità sta portando avanti da anni con il Ministero della Salute un programma di screening neonatale dell’ipotiroidismo congenito che indica lo stato nutrizionale iodico della popolazione dei neonati e, indirettamente, delle loro madri. Attenzione però – come ricorda il titolo dell’edizione di quest’anno – a non eccedere negli esami. Sia l’ipertiroidismo che l’ipotiroidismo sono patologie croniche, che hanno necessità di essere periodicamente controllate, senza tuttavia esagerare -nel numero dei controlli e nel tipo di esami da eseguire ciclicamente. In particolare, – aggiungono gli esperti in materia – se da un lato la frequente ripetizione di esami clinici e strumentali non strettamente necessari rappresenta una delle voci più dispendiose per quanto riguarda il bilancio del nostro Servizio Sanitario Nazionale, dall’altro, non deve essere dimenticata la necessità del monitoraggio della funzione tiroidea nei pazienti anziani con nota patologia.

Le cause delle patologie della tiroide e le categorie a rischio

La causa più frequente della patologia tiroidea è la carenza di iodio, che è il costituente essenziale dell’ormone tiroideo. L’uomo introduce lo iodio solamente con gli alimenti: la carenza iodica può provocare, a seconda dell’età della vita in cui si verifica e dell’entità, riduzione del quoziente intellettivo, deficit neurologici “minori”, gozzo, formazione di noduli o ipertiroidismo. Per prevenirla è necessario che l’alimentazione quotidiana sia quanto più possibile varia e preveda il consumo di cibi a più alto contenuto del micronutriente quali pesce, latte e formaggi e soprattutto seguendo la famosa regola “poco sale ma iodato”.

Quali sono le categorie più a rischio e da sorvegliare con maggiore attenzione? Sicuramente gli anziani e le donne in gravidanza, che hanno maggiore bisogno di iodio e sono quindi maggiormente esposte a possibili problemi. Qualche numero, fornito dal Ministero della Sanità: in Italia si ammalano di gozzo circa 6 milioni di persone (oltre il 10% della popolazione totale e il 20% dei giovani) con impatto economico stimato in oltre 150 milioni di euro l’anno. Secondo le ultime stime un neonato su 3mila nasce con una forma di malattia tiroidea. In età adulta, inoltre, le donne sono molto più soggette alle malattie tiroidee rispetto agli uomini: una donna ha il 20% di possibilità di sviluppare problemi alla tiroide nel corso della sua vita.

Dieta contro il gozzo tiroideo

Sempre in tema di prevenzione, ecco qualche indicazione sull’alimentazione, suggerita dal Ministero della Sanità, per evitare possibili criticità di carenza iodica. Una dieta con 2 porzioni di pesce a settimana, latte tutti i giorni e un po’ di formaggio garantisce il 50% del fabbisogno giornaliero di iodio (90 microgrammi nei bambini fino a 6 anni, 120 microgrammi in età scolare (7-12 anni) e 150 microgrammi negli adulti.

Durante la gravidanza e l’allattamento il fabbisogno aumenta a 250-300 microgrammi al giorno per una corretta funzione tiroidea materna e fetale, indispensabili per lo sviluppo del sistema nervoso centrale del feto. Per questo è necessario che l’assunzione quotidiana di iodio con l’alimentazione venga integrata: l’utilizzo di sale iodato consente di coprire il fabbisogno giornaliero fornendo 30 microgrammi di iodio per grammo di sale, anche se l’Oms caldeggia di mantenere il consumo giornaliero di sale sui 3-5 grammi per il rischio di malattie cardiovascolari. Mantenendo dunque il consumo del sale entro i 3-5 raccomandati si raggiunge una quantità al giorno di iodio pari a 90-150 microgrammi e in definitiva sufficiente a garantire un adeguato apporto iodico.

Noduli alla tiroide: cosa sapere

Infine, in casi rari, può verificarsi lo sviluppo di noduli tiroidei, che solitamente – ricorda l’Istituto Superiore di Sanità sul proprio sito – è un fenomeno di natura benigna (solo lo 0,3 per cento dei noduli è una neoplasia maligna). In caso di noduli maligni, i carcinomi più comuni sono gli adenocarcinomi papillari o papillari-follicolari (misti) che rappresentano circa il 60 per cento dei tumori maligni della tiroide. La prognosi è eccezionalmente buona, con oltre il 90 per cento di probabilità di guarigione. Il cancro tiroideo è più diffuso tra le donne rispetto agli uomini, con un rapporto di 3,2:1 e la sua incidenza aumenta con l’età. Tra le cause, è di riconosciuta importanza l’esposizione a radiazioni ionizzanti alla regione del collo. Il cancro alla tiroide ha avuto un’incidenza moltiplicata da 10 a 100 volte come conseguenza del disastro nucleare di Chernobyl, nelle zone interessate da un aumento significativo della radioattività.

Donazioni e trapianti di organi, nuovo record per l’Italia

Dopo essere tornata rapidamente ai livelli pre-Covid (già nel 2021 dopo il brusco calo del 2020), e dopo aver migliorato i suoi numeri ulteriormente nel 2022, l’Italia stabilisce un nuovo record nel 2023 per le donazioni (oltre 4mila) e i trapianti di organi (più di 2mila) e si piazza al secondo posto in Europa. I numeri vengono dall’ultimo report del Centro nazionale trapianti (l’Autorità competente in materia del Ministero della Salute) sono stati diffusi in occasione della Giornata Mondiale di donazioni e trapianti, celebrata lo scorso 14 aprile. “Il nostro sistema trapianti è all’avanguardia per la qualità delle prestazioni erogate e per la capacità di cura e assistenza, ed è già proiettato verso le principali sfide tecnologiche e organizzative che stanno ridisegnando i sistemi sanitari di tutto il mondo. Nostro compito è accompagnare l’introduzione di queste innovazioni sempre a beneficio dei pazienti”, ha sottolineato nei giorni scorsi il Ministro della Salute, Orazio Schillaci.

Insomma, anche in questo campo emergono le caratteristiche uniche di equità, solidarietà e universalità della sanità italiana, sebbene essa sia alle prese con importanti sfide per il futuro, in primis l’invecchiamento della popolazione (con il conseguente aumento delle cronicità) e le ristrettezze del bilancio pubblico. Una situazione più volte evidenziata da Assidai, che ha sempre ribadito da una parte l’assoluta centralità del Servizio Sanitario Nazionale e dall’altra parte la necessità di sostenerlo, in un’ottica complementare e mai sostitutiva.

Donazioni e trapianti da record: superata la Francia

Nel 2023 l’Italia si è posizionata al secondo posto in Europa per numero di donatori, superando la Francia, grazie a un tasso nazionale di donazione di 28,2 donatori per milione di persone. Le donazioni sono state 2.042 (11% in più rispetto al 2023) mentre i trapianti 4.462 (15%, in più rispetto al 2022). Rispetto ai numeri delle donazioni nel 2023, tra le città con oltre 100mila abitanti primeggia per il terzo anno consecutivo Trento, con una percentuale di consensi del 78,1%. Seguono Verona e Sassari. In calo invece le 4 città maggiori: Milano è 24esima (era 16esima), Torino passa dal 29esimo al 31esimo posto e Roma dal 32esimo al 33esimo.

L’aumento dei prelievi ha portato il tasso nazionale di donazione a quota 28,2 donatori per milione di persone (pmp), molto oltre il massimo storico di 24,6 registrato nel 2022. Con questo risultato, come detto, l’Italia ha staccato la Francia e si colloca al secondo posto tra i maggiori paesi europei per numero di donatori, dietro la Spagna.

A sostenere la performance sono soprattutto i risultati di tre regioni: l’Emilia-Romagna con 51,1 donatori pmp (+4,7), il Veneto con 46,4 (+10,1) e la Toscana con 45,6 donatori pmp. Ottimi anche i tassi di Sardegna, Piemonte e Marche, mentre restano purtroppo indietro le regioni meridionali. Per quanto riguarda i trapianti, la crescita degli interventi ha riguardato tutte le specialità: nel 2023 sono stati realizzati 2.245 trapianti di rene (+10,4%), 1.696 di fegato (+14,7%), 186 di polmone (+33,8%), 40 di pancreas (+5,3%) ma soprattutto ben 370 trapianti di cuore rispetto ai 253 dell’anno scorso (+46,2%). Inoltre, si conferma ancora il costante miglioramento degli esiti degli interventi. In termini assoluti è stata la Lombardia la regione a effettuare il maggior numero di trapianti (827) mentre in rapporto alla popolazione il primato spetta al Veneto (140,9 trapianti ogni milione di abitanti) seguito da Piemonte ed Emilia-Romagna. Al sud è significativa la crescita registrata dalla Puglia, passata in un anno da 29,7 a 46,9 trapianti per milione di abitanti.

La scelta della donazione

Tuttavia, come sottolineato dallo stesso ministro Schillaci, c’è ancora parecchia strada da percorrere. “Senza il Sì alla donazione, anche il sistema più avanzato dal punto di vista tecnologico non potrebbe procedere al trapianto. – ha sottolineato – E ancora: senza quel Sì, gli sforzi dei nostri medici, infermieri e operatori sanitari (a cui rinnovo il mio ringraziamento) sarebbero vani. Donare è una scelta naturale, un gesto che può fare la differenza per chi oggi aspetta un trapianto. Quando rinnoviamo la carta d’identità, facciamo una scelta di vita e diciamo Sì alla donazione“.

Anche in questo caso i numeri parlano chiaro: oggi circa 6mila pazienti stanno aspettando un nuovo rene, poco meno di un migliaio un fegato, circa 700 un cuore, oltre 200 un polmone e altrettanti un pancreas. Nonostante lo scorso anno il numero delle donazioni di organi abbia superato per la prima volta quota 2mila, permettendo la realizzazione di quasi 4.500 trapianti (oltre il 15% in più che 2022), il numero degli organi che si rendono disponibili non è ancora sufficiente ad assicurare il trapianto a tutti i pazienti che ne hanno bisogno.

Trapianti: l’iniziativa di sensibilizzazione del Ministero della Salute 

Anche per questo il Ministero della Salute e il Centro Nazionale Trapianti (CNT) hanno lanciato in questi giorni un’importante iniziativa: in aprile sono stati inviati a circa 900 uffici anagrafe dei 500 comuni più popolosi d’Italia dei nuovi allestimenti informativi (roll-up, manifesti e locandine) grazie ai quali i cittadini in attesa di rinnovare il documento d’identità potranno ricevere informazioni verificate e corrette sulla donazione, in modo da compiere una scelta consapevole quando arriva il proprio turno allo sportello. L’iniziativa proseguirà anche nei mesi seguenti ed entro la fine dell’anno saranno 1.500 le sedi anagrafiche e oltre 1.100 i comuni raggiunti, con una copertura territoriale di quasi 40 milioni di cittadini residenti.

Ridurre il sale per prevenire l’ipertensione

Mangiare regolarmente troppo sale può aumentare il rischio di sviluppare la pressione alta, che a sua volta è la principale causa di ictus e una delle principali cause di attacchi di cuore, due patologie responsabili di 17,9 milioni di decessi nel mondo. È questo il principale messaggio lanciato dalla “Salt Awarness Week”, promossa da World Action on Salt, Sugar and Health (Associazione con partner in 100 Paesi dei diversi continenti costituita nel 2005), che a livello globale, tra il 13 e il 19 maggio prossimi, cercherà di aumentare la sensibilizzazione in merito all’eccessivo utilizzo di sale.

Secondo gli esperti, infatti, ridurlo nella nostra dieta è uno dei modi più rapidi ed efficaci per abbassare la pressione sanguigna e migliorare la nostra salute. Ciò di cui spesso non ci rendiamo conto, purtroppo, è quanto sale stiamo mangiando perché la maggior parte di esso è già presente nel cibo che acquistiamo.

A tal proposito l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) raccomanda di consumarne non più di 5 grammi al giorno (ovvero un cucchiaino), ma a livello globale ne consumiamo molto di più. Se l’assunzione di sale da parte della popolazione si riducesse a 5 grammi al giorno, si potrebbero prevenire 1,65 milioni di morti ogni anno per malattie cardiovascolari, abbassando del 23% il pericolo di avere un ictus e del 17% quello di avere una malattia cardiaca.

Il report dell’Oms

Riassumiamo i numeri: a livello mondiale il consumo giornaliero di sale nella popolazione adulta è in media di 10,8 grammi, dunque più del doppio del valore raccomandato dall’Oms. Nonostante ciò, solo il 5% degli Stati membri – nove in tutto – della stessa Oms ha adottato politiche obbligatorie di riduzione del sodio (Brasile, Cile, Repubblica Ceca, Lituania, Malesia, Messico, Arabia Saudita, Spagna e Uruguay) e il 73% dei Paesi non dispone di una gamma completa di strategie per l’implementazione di tali misure. A dirlo è un recente report dell’Organizzazione mondiale per la sanità, che per la prima volta ha presentato un quadro globale sui progressi compiuti nell’attuazione di politiche di riduzione dell’assunzione di sodio nei 194 Stati membri. Il documento mostra che siamo ben lontani dal raggiungere l’obiettivo globale di ridurre del 30% l’assunzione di sodio entro il 2025, uno dei nove obiettivi strategici del Piano d’azione globale 2013-2020 dell’OMS per la prevenzione e il controllo delle malattie non trasmissibili (“Global Action Plan for the Prevention and Control of Noncommunicable Disease 2013-2020”).

L’impegno del Ministero della Salute e di Assidai

Su questo fronte, va ricordato, si è sempre dimostrato attivo anche il nostro Ministero della Salute sulla base di un dato di fatto preoccupante: in Italia l’uso medio di sale pro-capite, seppur con qualche miglioramento più recente, è comunque stimato a ridosso di 10 grammi giornalieri (ma c’è chi arriva anche a 15 grammi o oltre). Ridurre gli eccessi nel consumo di sale significa abbattere le probabilità di avere ictus o malattie cardiache: questo conferma un tema già affrontato da Assidai su Welfare 24, newsletter realizzata in collaborazione con Il Sole 24 Ore, ovverosia che fare prevenzione, anche a tavola, è molto importante per il proprio benessere psico-fisico.

Dal canto suo, il Ministero della Salute ricorda come a questo fine contribuiscono già da tempo sia il Programma “Guadagnare salute: rendere facili le scelte salutari” (D.P.C.M. 4 maggio 2007), nel cui ambito sono stati siglati numerosi Protocolli d’intesa tra il Ministero stesso e Associazioni di produttori di alimenti artigianali o industriali volti a ridurre il contenuto di sale in diverse categorie di prodotti alimentari, sia il Piano Nazionale della Prevenzione. L’attuale Piano Nazionale della Prevenzione (PNP) 2020-2025 (Intesa Stato-Regioni del 6 agosto 2020) prevede una linea strategica di intervento per la riduzione del consumo di sale, confermando così l’importanza dell’obiettivo nel contesto della promozione di una sana alimentazione per la prevenzione delle malattie croniche non trasmissibili, già perseguito dalle Regioni con il precedente PNP 2014-2018, prorogato al 2019, attraverso lo sviluppo di iniziative comprendenti, tra l’altro, accordi intersettoriali locali e attività informative per la popolazione e formative per operatori connessi al settore alimentare.

Come non superare la soglia limite di sale: le cinque regole d’oro

Analizziamo la situazione iniziando a ragionare con qualche esempio pratico, che spieghi numeri all’apparenza di difficile comprensione: una colazione a base di latte e cereali contiene già mezzo grammo di sale. Invece, un pranzo che prevede spaghetti alle vongole (1,5 grammi di sale), un’insalata di tonno e mais (3 grammi), pane (0,4 grammi) e gelato (0,5 grammi) supera già il tetto fissato dall’Oms e si posiziona a 5,4 grammi di sale. Finiamo con una cena con pasta alle acciughe (3,3 grammi), 80 grammi di prosciutto crudo (3,3 grammi), pane (0,4 grammi) e una fetta di cheesecake (0,5 grammi) e si consumano altri 7,5 grammi di sale per arrivare a un totale giornaliero abnorme e cioè 15 grammi di sale, che fanno quasi mezzo chilo al mese. Un’obiezione potrebbe essere rappresentata dal fatto che non abbiamo preso a modello dei pasti particolarmente leggeri. È anche vero, tuttavia, che non abbiamo tenuto conto dei vari spuntini e snack (spesso salati, talvolta vero e proprio “junk food”, il cosiddetto cibo spazzatura) consumati tra un pasto e l’altro e che, spesso, molti alimenti contengono già di per sé sale e non ne siamo a conoscenza.

Come fare dunque per diminuire il consumo di sale? Ecco cinque regole d’oro da seguire secondo lo studio analizzato:

fare un generoso uso di erbe e spezie al posto del sale e limitare il gusto di condimenti contenenti sodio (come dado da brodo, ketchup, salsa di soia o senape): il nostro gusto si abituerà rapidamente.

preferire frutta e verdura fresche e limitare il consumo di piatti industriali e sughi già pronti; risciacquare il più possibile le verdure e i legumi in scatola, moderando al tempo stesso il consumo di formaggi (preferendo per esempio quelli freschi agli stagionati) e salumi.

controllare l’etichetta presente sui singoli prodotti che acquistiamo e scegliere quelli meno salati (diversi alimenti subiscono, infatti, trattamenti industriali che li rendono più salati).

scegliere pane, cracker e prodotti da forno meno salati che renderanno la dieta più salutare. Per uno spuntino meglio preferire frutta e spremute.

eliminare la saliera cosa che incoraggerà i più giovani a non aggiungere ai piatti condimenti salati. E, ove possibile, aggiungere meno sale alle ricette: pasta e riso, per esempio, possono essere cotti in acqua poco salata.

Guai agli eccessi: puntare sul sale iposodico

Tutti questi discorsi, ovviamente, non devono spingerci verso l’eccesso opposto e cioè il totale abbandono del consumo di sale, anche perché l’organismo non produce il sodio contenuto nel sale stesso: dunque abbiamo bisogno di introdurlo nella dieta, ma non in eccesso. Piuttosto meglio propendere per i cosiddetti sali iposodici cioè prodotti a basso apporto di cloruro di sodio sostituito generalmente dai sali di potassio che però hanno un sapore amarognolo e per questo il prodotto finale, a fronte di un costo superiore a quello del comune sale da cucina, è talvolta poco gradito. Ancora meglio sarebbe l’utilizzo di sale iposodico iodato e cioè addizionato artificialmente di iodio sotto forma di ioduro o iodato di potassio. Va ricordato che il sale iodato è la soluzione proposta dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) per ridurre i disordini da carenza iodica: esistono infatti delle aree del pianeta, tra cui l’Italia, in cui l’apporto dietetico di questo minerale è particolarmente basso e purtroppo ciò può causare gravissimi problemi di salute.

In conclusione, possiamo affermare che il messaggio che lo studio sottolinea è proprio quello di porre un po’ più di attenzione a ciò che ingeriamo nel corso della giornata e di farci guidare dal buon senso nelle scelte alimentari per stare meglio e ridurre notevolmente il rischio di ammalarci.

I nuovi Lea alla stretta finale

Sarebbe in dirittura d’arrivo la lista dei nuovi Lea, i Livelli essenziali di assistenza che rappresentano un architrave del Servizio Sanitario Nazionale Italiano, e fino a qualche settimana fa rischiavano un ulteriore rinvio. A occuparsi del tema in modo approfondito, nelle scorse settimane, è stato Il Sole 24 Ore. Prima, infatti, il quotidiano ha sottolineato come il nodo principale fosse rappresentato dalle nuove tariffe della sanità pubblica su visite ed esami. Tariffe che risultavano inapplicabili e non sostenibili – facevano notare gli esperti – per chi lavora con il Sistema Sanitario Nazionale (SSN) visto che solo le visite specialistiche calano dai 23 ai 18 euro mentre per risonanze, tac e diagnostica per immagini il crollo è fino al 35%. Di qui il forte rischio di nuovi ritardi, con un rinvio a luglio o addirittura a fine anno del nuovo tariffario della specialistica ambulatoriale. Successivamente, lo stesso Sole 24 Ore ha rivelato il piano a cui sta lavorando il Governo per rispettare le scadenze fissate. Si tratta di una soluzione ponte: per qualche settimana sarà ancora utilizzato il vecchio tariffario per tutte le prestazioni prescritte entro il 31 marzo; successivamente saranno effettuati aumenti su misura per le prestazioni che prevedono tariffe troppo basse e non sostenibili: dalla semplice visita (rimborsata con soli 22 euro) agli interventi di cataratta. Così, con la progressiva revisione delle tariffe, potrebbero finalmente prendere piede nuove prestazioni a carico del Servizio Sanitario Nazionale come la procreazione assistita, nuovi test genetici e terapie oncologiche all’avanguardia, attese dagli italiani da molto tempo.  

 

Che cosa sono i Lea 

Ma andiamo con ordine. Che cosa sono i Lea? Sono le prestazioni e i servizi che il Servizio Sanitario Nazionale deve fornire a tutti i cittadini, gratuitamente o dietro pagamento di una quota di partecipazione (il cosiddetto ticket), utilizzando le risorse pubbliche raccolte attraverso la fiscalità generale. È evidente come i Lea rappresentino dunque un caposaldo della nostra sanità, praticamente unica al mondo per equità e universalità. Del resto, a tal proposito, l’articolo 32 della nostra costituzione parla chiaro: “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti”. Tutto ciò rappresenta un punto di forza per il nostro Paese ma, in ottica futura, anche un possibile elemento di debolezza vista la dinamica di invecchiamento della popolazione e l’aumento della spesa pubblica per la sanità. Per questo, secondo gli esperti, diventa sempre più importante affrontare la questione centrale, quanto delicata, della relazione tra il Servizio Sanitario Nazionale e i Fondi Sanitari, così come la loro regolamentazione, al fine di mantenere gli attuali standard. Una posizione fermamente condivisa da Assidai – Fondo di Assistenza Sanitaria Integrativa Dirigenti Aziende Industriali – che, in quest’ottica, offre dal 1990 il proprio contributo al sistema Federmanager e al Paese ed è a completa disposizione delle Istituzioni per portare in evidenza il proprio modello di gestione e di governance. 

 

Come nascono i ritardi dei nuovi Lea 

Da dove nascono i ritardi nell’applicazione dei nuovi Lea? Nel 2017, i Livelli essenziali di assistenza hanno visto una ridefinizione del loro perimetro, che ad oggi non è ancora efficace. Il motivo? Mancava un decreto che definisse le nuove tariffe dell’assistenza specialistica ambulatoriale e protesica. Decreto che è arrivato l’anno scorso – un passaggio importantissimo, lo aveva definito il Ministro della Salute, Orazio Schillaci, perché l’obiettivo è “garantire a tutti i cittadini le stesse nuove prestazioni, superando dunque le diseguaglianze tra le Regioni” – fissando precisi obiettivi. Ovvero l’applicazione dei nuovi Lea, che prevedono 2108 prestazioni rispetto alle 1702 della versione precedente (che risale al 1996), avrebbe dovuto rispettare due tempistiche distinte: dal primo gennaio 2024 sarebbero dovute entrare in vigore le tariffe della nuova assistenza specialistica ambulatoriale e dal primo aprile 2024 quelle dell’assistenza protesica.  Da qui il rischio concreto di un nuovo slittamento, che tuttavia i correttivi d’urgenza allo studio del Governo dovrebbero scongiurare.  

 

Un’alleanza pubblico-privato per migliorare la sanità 

Il nodo dei nuovi Lea e delle relative tariffe chiama inevitabilmente in causa un tema molto più ampio che riguarda la sostenibilità finanziaria, presente e soprattutto futura, del Servizio Sanitario Nazionale così come è oggi, cioè unico al mondo per le caratteristiche di equità e universalità. La dinamica di invecchiamento della popolazione e il relativo aumento della spesa pubblica per la sanità, secondo gli esperti, rendono questa missione sempre più difficile, chiamando in causa una collaborazione tra pubblico e privato. Non è un caso che il Patto per la Salute 2019-2021, oltre a registrare la volontà di Governo e Regioni sull’implementazione dei nuovi Lea, affrontava anche il tema dei fondi sanitari integrativi. Sul tema, sempre Governo e Regioni avevano deciso di “istituire un gruppo di lavoro con una rappresentanza paritetica delle Regioni rispetto a quella dei Ministeri, che, entro sei mesi dalla sottoscrizione del patto”, concludesse “una proposta di provvedimento volta all’ammodernamento e alla revisione della normativa sui fondi sanitari ai sensi dell’articolo 9 del Dlgs 502/1992, e sugli altri enti e fondi aventi finalità assistenziali”. Ciò al fine di “tutelare l’appropriatezza dell’offerta assistenziale in coerenza con la normativa nazionale, di favorire la trasparenza del settore, di potenziare il sistema di vigilanza, con l‘obiettivo di aumentare l’efficienza complessiva del settore a beneficio dell’intera della popolazione e garantire un’effettiva integrazione dei fondi con il Servizio Sanitario Nazionale”, procedendo al contempo ad “un’analisi degli oneri a carico della finanza pubblica”. 

Tutto ciò, sempre nell’ottica di una maggiore integrazione tra pubblico e privato, ha portato a iniziative come l’Anagrafe dei Fondi o come il recente “cruscotto delle prestazioni”, ovvero un’iniziativa che punta a raccogliere dati sulle fasce di popolazione effettivamente coperte dal sistema di sanità integrativa e sulle modalità e livelli di accesso al sistema, ponendo le basi per l’introduzione di un codice univoco di classificazione delle prestazioni tra primo e secondo pilastro, al fine di valorizzare il rapporto funzionale che è alla base del nostro sistema sussidiario di sanità.  

L’obiettivo, più in generale, è integrare il pubblico col privato per garantire al primo la sostenibilità di lungo periodo, sempre in un’ottica di complementarità. Per fare ciò e per “dialogare” pubblico e privato devono interagire in modo da mettere a fuoco le effettive richieste di cura della popolazione e la loro evoluzione e da creare una reale sinergia che possa affrontare e risolvere i bisogni del Paese guadagnando in efficienza e diminuendo i tempi di attesa senza perdere la qualità.   

Il benefit più ambito? Il tempo libero

Oltre ai benefit, il tempo libero. La nuova frontiera del welfare aziendale è offrirne di più alle lavoratrici e ai lavoratori, anche perché arriva proprio da loro la richiesta di avere sempre più tempo da dedicare alla vita privata, ovvero alla famiglia e agli interessi personali. Non è un mistero che, già da alcuni anni, con la diffusione dei nuovi contratti integrativi aziendali, il personale dipendente stia diventando sempre più parte attiva della scelta tra lavoro e tempo libero, arrivando a “barattare” giorni liberi in cambio di una busta paga più leggera. Tuttavia, quanto sta prendendo corpo più di recente è un trend ancora più rilevante, con l’inserimento della riduzione dell’orario di lavoro nel ventaglio del welfare aziendale e nella contrattazione di primo e secondo livello.

 

Giovani e tempo libero

Stando a una ricerca del gruppo internazionale di recruiting Pagegroup, citata da un articolo del Sole 24 Ore, su un campione di 70mila professionisti a livello globale, Italia inclusa, il 70% ritiene che l’equilibrio tra lavoro e vita privata sia uno dei principali indici di soddisfazione lavorativa. È il cosiddetto “work life balance”, uno dei perni del concetto di welfare aziendale, considerato sempre più centrale nella nuova impostazione dei rapporti tra dipendente e impresa. Per quanto riguarda il nostro Paese, il Censis ha evidenziato che il 76,2% dei giovani sono convinti che un impegno aggiuntivo di un’ora di lavoro debba avere un compenso tale da giustificare la rinuncia anche a un’ora di tempo libero. Insomma, il tempo entra sempre più nella sfera valoriale delle lavoratrici e dei lavoratori, ma anche in quella economica.

 

I contratti di categoria

Passiamo a degli esempi concreti. Un tema chiave, ricorda Il Sole 24 Ore, è quello della contrattazione, sia di primo sia di secondo livello, che rivela perfettamente le dinamiche in atto sul mercato. La riduzione oraria è entrata nell’ultimo negoziato dell’industria del legno-arredo, dove però il tema è uscito dal tavolo poco prima della firma del nuovo contratto. Ora se ne parla per l’alimentare e, con buona probabilità, per il contratto delle telecomunicazioni, dove le assemblee dei lavoratori hanno approvato una piattaforma che va verso la riduzione oraria. Per quanto riguarda la metalmeccanica, i sindacati hanno diffuso un questionario tra le persone iscritte su questo tema che sarà nella loro piattaforma. Tuttavia, l’unica mossa effettivamente andata a segno è stata quella dei bancari che, nell’ultimo contratto Abi, hanno concordato una riduzione oraria di mezz’ora alla settimana, il che significa quasi tre giorni e mezzo di lavoro in meno all’anno. È assai probabile, in ogni caso, che nei prossimi mesi si vedranno altri accordi di questo tenore.

 

Che cosa succede in azienda nella gestione del tempo

Per quanto riguarda la contrattazione di secondo livello, cioè in azienda, emerge in Italia un allargamento dei permessi retribuiti e delle loro “causali”, che vanno dalla genitorialità alle visite mediche fino alla malattia. C’è anche la possibilità – ma si tratta di un elemento in parte presente già da alcuni anni – di convertire parte del premio in permessi. Unicredit, per esempio, a tal proposito ha raggiunto un’intesa che consente di ottenere fino a cinque giorni liberi in più all’anno. il colosso farmaceutico Sanofi ha lanciato un programma per i collaboratori affetti da cancro e altre malattie critiche che prevede sostegno emotivo, flessibilità in tempi e modalità di lavoro, retribuzione al 100% per un anno e marcatori tumorali nel check up. Fater, impresa frutto della joint venture fra Procter & Gamble e il Gruppo Angelini, ha invece promosso un welfare particolarmente vantaggioso per chi ha figlie e figli, mentre al personale dipendente – mansione operaia/o – over 50 mette a disposizione tre giorni aggiuntivi di ferie per compensare l’impatto dei turni notturni. Infine, Engineering ha innalzato il numero di permessi per visite mediche private e per la malattia delle figlie e dei figli, ma ha anche portato il contributo per congedo parentale facoltativo all’80% della retribuzione per un mese in aggiunta a quanto previsto dalla normativa. Oltre a ciò, ha previsto che l’importo del premio di risultato possa essere convertito in permessi.

 

Assidai e il welfare aziendale

Insomma, il tempo libero sempre più al centro del welfare aziendale. Un concetto, quest’ultimo, ormai è entrato a tutti gli effetti nella contrattazione collettiva attraverso l’introduzione della sanità integrativa e della previdenza complementare: due esigenze che, insieme al work life balance, sono richiesti e attesi dai lavoratori di tutti i livelli. Assidai ha da molti anni introdotto, in maniera pioneristica, l’estensione delle coperture al nucleo familiare, oltre a proporre la costruzione di Piani Sanitari ad hoc, personalizzati proprio sulla base delle caratteristiche richieste dalle aziende, dalle lavoratrici e dai lavoratori.