La valigia.
Quando entrai in metropolitana la prima volta, mi guardai intorno circospetto. Quanta gente! Uno addosso all’altro con lo sguardo perso nel vuoto. Tra di loro non si parlavano, ognuno con i suoi pensieri, il suo libro, la sua radio, il suo giornale. Tutti sapevano dove andare e magari ci andavano tutti i giorni. Per me era la prima volta che mettevo piede su quel mezzo in quella immensa città. Avevo paura, lo ammetto. Poi tra i tanti notai un volto familiare. Era un signore del mio stesso paese che si era trasferito anni prima. Allora mi rincuorai e mi dissi : “Se ce l’ha fatta lui, ce la farò anch’io!”
Così mi buttai a capofitto nel lavoro, mai una assenza, sempre puntuale: un robot. Un giorno ero in metropolitana e quella telefonata di mio fratello mi fece rendere conto che il tempo stava scorrendo veloce ed avevo dimenticato il resto del mondo. Mia madre non stava bene. Il giorno dopo la diagnosi di carcinoma al colon. Non so perché pensai di aver perso mia madre. La sua immagine tornava sempre nella mia mente a varie età della mia vita, una figura sempre presente, un riferimento che stava per sparire.
Lei ignara si affidò a noi ci seguì fiduciosa con la sua valigia rimediata all’ultimo minuto, lei che non aveva mai viaggiato. Le sue poche cose, il timore di dare fastidio, lo sguardo smarrito per capire cosa stesse accadendo. E poi ogni giorno vederla in ospedale che ci aspettava smarrita e camminava nei corridoi tra me e mio fratello. Lei piccolina e curva, noi molto più alti di lei. A tutti diceva: “Questi sono i miei figli, li ho fatti io!”. A noi invece ripeteva “Non venite tutti i giorni, chissà quanto state spendendo. Non preoccupatevi per me”. Ma noi sapevamo che non vedeva l’ora di abbracciarci, persa come era nello spavento. Poi l’intervento e le dimissioni dall’ospedale.
Poi piano piano il ritorno alla vita in lei ed in noi.
Grazie, perché nessuno sia sottratto all’abbraccio dei suoi cari.
Giuseppe Pasciuti