Ma il suo centro di ricerche Cergas avverte: “Da risolvere i nodi della frammentazione sociale e gli squilibri territoriali
Dopo avere raggiunto l’equilibrio economico-finanziario riuscendo a mantenere buoni risultati in termini di salute della popolazione, il Servizio Sanitario Nazionale (SSN) è chiamato a risolvere alcuni disequilibri territoriali e a raccogliere la sfida imposta dalla frammentazione della società, che crea nuove fragilità e nuovi bisogni. Lo afferma il Rapporto Oasi 2018 (Osservatorio sulle aziende e sul Sistema sanitario italiano), presentato alla fine dello scorso anno dal Cergas (Centro di ricerche sulla gestione dell’assistenza sanitaria e sociale) dell’Università Bocconi di Milano.
Nel 2017 il SSN, secondo lo studio, ha segnato un lieve disavanzo contabile (282 milioni di euro, pari allo 0,2% della spesa sanitaria pubblica corrente), con le regioni del Centro-Sud che si dimostrano ormai virtuose quanto quelle del Nord. Il Lazio, per esempio, ha registrato un avanzo di 529 milioni e la Campania di 77. Nello stesso anno, la spesa del SSN è aumentata dell’1,3% a 117,5 miliardi di euro, portando l’aumento medio, dal 2012 al 2017, allo 0,6% nominale annuo, equivalente, tuttavia, a un incremento nullo tenendo conto dell’inflazione. Come ci posizioniamo in confronto all’Europa? La spesa sanitaria italiana è pari all’8,9% del Pil, contro il 9,8% della Gran Bretagna, l’11,1% della Germania e il 17,1% degli Stati Uniti, con il SSN che ne copre il 74%.
I rischi della frammentazione sociale per il Servizio Sanitario Nazionale
Il principale indicatore di salute della popolazione, l’aspettativa di vita rimane eccellente (82,8 anni al 2016), ma cresce meno che altrove, tanto che, dal 2010 al 2016, l’Italia è passata dal secondo al sesto posto al mondo nella classifica di longevità dell’Organizzazione mondiale della sanità. Ciò mentre i tassi di mortalità per tutte le maggiori malattie sono in declino, cresce la mortalità dovuta a disturbi psichici e malattie del sistema nervoso.
Rimangono invece ancora piuttosto marcate le differenze territoriali: l’aspettativa di vita in buona salute è di 56,6 anni al Sud e di 60,5 anni al Nord, con la Calabria che si assesta a 52 anni e la provincia autonoma di Bolzano che arriva a 69. Fino al 2016, prima dell’introduzione di limitazioni legislative, anche la mobilità territoriale dei pazienti sulla direttrice Sud-Nord era in aumento. A rimanere inevasa, tuttavia, è soprattutto la domanda derivante dal cambiamento sociale, che porta a una progressiva frammentazione: nel 2017 il 32% delle famiglie è unipersonale (8,1 milioni di individui, di cui 4,4 milioni over 60) e il rapporto tra gli over 65 e la popolazione attiva, al 35%, è il più alto d’Europa. Non è un caso che, tra il 2010 e il 2017, gli over 65 siano aumentati di 1,3 milioni di persone (+11%).
Le dinamiche demografiche e il nodo Long Term Care
L’invecchiamento è un trend fisiologico e di per sé positivo, perché conferma la lunga aspettativa di vita oltre i 60 anni. A preoccupare, semmai, è lo squilibrio tra popolazione over 65 e popolazione in età attiva, che diminuisce a causa del drastico calo delle nascite. Nei prossimi 20 anni, infatti, il rapporto tra over 65 e popolazione attiva passerà dal 35% al 53%: oltre un “anziano” ogni due persone in età attiva. Questa evoluzione crea e creerà sempre più gravi disequilibri nei servizi socio-sanitari che, stima l’Osservatorio, oggi riescono a coprire solo il 32% del bisogno. Particolarmente critica è la disponibilità di posti letto in strutture sanitarie per anziani non autosufficienti, pari nel 2015 a circa 302mila a fronte di 2,8 milioni di persone che ne avrebbero necessità. Il sistema fatica anche a garantire continuità assistenziale agli anziani a seguito di un ricovero: un over 85 su quattro viene ricoverato almeno una volta l’anno, con una degenza media di 11 giorni, ma solo il 16% di questi viene dimesso prevedendo qualche forma di continuità assistenziale.